Miss 007

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WASHINGTON. Nadia la bella greca si consuma nel sogno di incontrare l’uomo della sua vita. Racconta qualcosa che ogni donna appassionata potrebbe riconoscere: «Sapevo tutto di lui, era l’ultimo mio pensiero prima di dormire e il primo al risveglio». Per lui aveva addirittura comperato e indossato quell’indumento intimo che ogni uomo trova irresistibile e che poche donne ormai usano, il reggicalze.
Ma qualunque sacrificio era giustificato per lui, anche quello di portare il solo capo intimo che le permettesse di tenere saldamente una Glock, un’automatica leggera, nelle calze. Nadia Bakos, “field agent”, agente di prima linea a Baghdad della Cia non riuscì mai a incontrare colui che era diventato l’ossessione della sua vita dopo l’11 settembre, Abu Musab al-Zarqawi, il boss di Al Qaeda in Iraq. Qualcun altro lo uccise per lei, ma almeno da quel giorno ha potuto rinunciare allo scomodo reggicalze.
La sua storia, raccontata da lei stessa alla Cnn poco dopo avere lasciato il mondo dello spionaggio ed essersi trasformata in una semplice funzionaria dalle 9 alle 5 con marito e figli a pochi minuti dall’enorme castello sul Potomac che è la sede dell’Agenzia, non è — suggestioni sexy a parte — una versione post moderna delle avventure di Margaretha Zeller, in arte Mata Hari. O di Josephine McDonald coniugata Baker che con le sue impudiche gonnelline di banane collaborava con il Maquis francese contro i Nazi.
La presenza femminile nel business che un tempo neppure i gentiluomini osavano trattare, lo spionaggio, sta andando ben oltre l’occasionale maliarda che seduce babbei nemici nella «trappola del miele» e li fa parlare tra le lenzuola. O li cattura e li deporta, come Cheryl Ben-Tov, l’agente del Kidon, il servizio esecuzioni e rapimenti del Mossad israeliano, fece con lo scienziato traditore Mordechai Vanunu, attirato in un hotel di Roma.
La nuova arma della guerra segreta non sono gli ammennicoli e i gadget di “Q”, il wizard immaginario di James Bond. Sono sempre più le donne. Donna è più del 40 per cento dei dipendenti diretti della Cia, dunque escludendo la cifra ignota di “asset”, come si chiamano nel gergo, di persone di ogni genere e tendenza che collaborano con l’intelligence americana nel mondo magari senza saperlo. In Israele, dove da sempre le femmine sono in prima linea al fronte, donne sono killer per il Kidon, per i servizi di sicurezza Shin-Bet, per il Mossad. Le agenti israeliane sembrano essere tra le più spregiudicate nell’adoperare la propria “différence” per intrappolare turisti, militari, viaggiatori e sfilare loro quanto di più prezioso questi possiedano. Quel passaporto valido che poi sarà  utilizzato da colleghi nei “mokrie dela”, gli affari bagnati come eufemisticamente i russi del Kgb definivano gli assassinii. O compierli loro stesse, se è vero che fu la affusolata manina di Gail Folliard del Kidon ad uccidere Mahmoud al-Mabhouh, uomo Hamas a Dubai.
Sono naturalmente le imprese di queste “00Sexy” quelle che affascinano il pubblico e che le organizzazioni spionistiche lasciano filtrare per eccitare l’immaginazione e alimentare il mito, donne d’azione, d’intrigo, di baci al rossetto narcotico edi revolver sotto le gonne. Persino i torvi e scarsamente femministi iraniani vantano un gruppo di “ninja” donne, letali acrobate e funambole addestrate nell’uso di lame e dardi. La televisione iraniana ha mostrato con orgoglio le esibizioni di queste “kunoichi”, praticanti dell’antica arte giapponese segreta di colpire in silenzio, il “ninjutsu”, una forma di guerriglia ultrasecolare che mirabilmente si attaglia al più castigato degli abbigliamenti, per non offendere la sensibilità  femminile e la moralità  delle devote iraniane mentre sgozzano qualcuno.
Ma la crescita fortissima delle donne nel mondo dello spionaggio ha più a che fare con la nuova natura dell’intelligence che con le seduzioni muliebri o con il coraggio fisico dimostrato dalle famose spie nella Guerra Civile. Donne come la leggendaria schiava Harriet Tubman che dall’intero delle piantagioni del Sud passava informazioni all’Unione sapendo di poter essere torturata e linciata, o come Nancy Hart, la sudista infiltrata a Washington che fu catturata ma convinse con moine e promesse il carceriere a mostrargli la pistola, gliela portò via, lo fece secco e scomparve per sempre.
Se la “trappola del miele” scatta ancora con inevitabile perfidia, alla maniera di Anna Chapman, la stupenda “femme fatale” espulsa nel 2010 che a New York lavorava per Mosca insieme con un giro di undici supermodelle, il rischio è più quello della micidiale botta di sonno burocratica, piuttosto che del colpo alla nuca impiegato dal Kgb alla Lubjanka per giustiziare le spie.
Nell’ora dello spionaggio industriale, finanziario e commerciale, della cyberguerra a colpi di virus, vermi e “phishing” che s’intrufolano nei server del nemico, nella prevalenza della della “sigint”, l’intelligence elettronica sopra la “humint”, l’intelligence umana alla le Carrè o Fleming, fare la spia significa trascorrere giornate di
tedio straziante davanti a un monitor brulicante di numerini.
La stessa superdonna decoratissima che ha fornito il personaggio interpretato da Jessica Chastain nel filmone sulla uccisione di Bin Laden,
consumò molte più ore cercando di recuperare le tracce del corriere dello sceicco terrorista che nell’azione sul campo. Anche se fu lei, orgogliosamente femminile con i tacchi alti, quella che fu chiamata dai comandi a riconoscere sulla portaerei i resti di Osama. Una chiusura che a Nadia Bakos è stata negata.
Le donne, dicono i loro superiori alla Cia, sembrano avere un talento particolare nel lavoro di ricostruzione, di collegamento, di comprensione di quelle ragnatele umane e immateriali che formano poi il mosaico finale di carne e sangue sul quale si potrà  agire. Qualche teoria psico-sociale azzarda l’ipotesi che la naturale propensione delle femmine a cercare il filo delle relazioni umane piuttosto che puntare subito alle cornate dirette come i maschi, le aiuti a tessere quella tela infinita che oggi si estende da Pechino a Karthoum, dall’Avana a Riad (dove anche i sauditi hanno cominciato a reclutare donne) passando per i vicoli e i cortili di ogni villaggio. E che permette di capire, dunque di prevenire, la minaccia.
Ma il mondo della spionaggio, ha concluso un simposio di “Donne nell’Intelligence” tenuto proprio in Virginia, a tiro di fucile dalla Cia, resta ancora profondamente maschile e dominato dai maschi. Ci sono state tre Segretarie di Stato negli Usa, Albright, Rice e Clinton, ministri e persino qualche generalessa, anche se non in prima linea, quando alle femmine era vietato il combattimento ora permesso. Mai direttrici della Cia, della Dia (lo spionaggio militare) dello Fbi (la sicurezza e controspionaggio) della Nsa (l’agenzia dedicata alla sorveglianza elettronica planetaria) né alti dirigenti donna.
Narra Jane Tucker, funzionaria in pensione dei servizi tech della Cia, bellissima signora dai capelli platinati («Naturali», tiene a precisare in tv perché va bene tutto, ma sempre donna è) che le capitò di partecipare a una riunione per decidere quale fornitura di computer e server acquistare. Attorno all’immancabile tavolone ovale erano già  seduti una dozzina di arcigni colleghi in grisaglie pronti ad ascoltare il fornitore che a mala pena la notò quando lei entrò nella sala e continuò la presentazione. «Scusi — lo interruppe lei — forse non ha capito che qui dentro il capo sono io», e lo era.
Il venditore balbettò qualche scusa e continuò. Non fu il primo, e certamente non sarà  l’ultimo, che si sentirà  dire, magari prima di morire: «Il mio nome è Bond. Jane Bond».


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