Obama, storica visita in Israele

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C’è la versione più cauta nell’entourage del presidente, è quella di chi dice: «Perché ci va? Perché aveva detto che ci sarebbe andato». La lettura minimalista viene adottata per prudenza dal portavoce della Casa Bianca: «Questo viaggio non è focalizzato specificamente sul processo di pace». In quattro anni di viaggi all’estero la lacuna era vistosa. Gliel’avevano fatto pesare i repubblicani durante la campagna elettorale. «Questo presidente è andato in Egitto (discorso all’università  del Cairo, giugno 2009, ndr) e non in Israele. È uno sgarbo grave al nostro alleato storico più fedele», disse Mitt Romney. Quel viaggio mai realizzatosi durante il primo mandato, diventava un appiglio in più per l’accusa della destra a Obama: quella di avere commesso errori strategici sulle primavere arabe, per esempio accelerando la caduta di un alleato come Mubarak per veder poi i Fratelli musulmani al potere al Cairo.
Dunque, Obama aveva promesso di visitare Israele e lo farà . Ma con quali obiettivi? Il quotidiano israeliano Haaretz dà  una lettura molto ambiziosa di questo viaggio: «È il momento della verità  per il governo Netanyahu. È un tentativo senza precedenti (da parte del presidente Usa, ndr) di dare forma in Israele a una coalizione favorevole al processo di pace». La versione ambiziosa viene riecheggiata da questa parte dell’Atlantico dal Washington Post, che attribuisce al presidente la volontà  di «iniziare il secondo mandato dando subito una spinta ai negoziati di pace tra due governi divisi, e di definire gli sviluppi politici che stanno ridisegnando il Medio Oriente».
Gli analisti americani vicini alla Casa Bianca sottolineano il cambiamento dei rapporti di forze tra Obama e Benjamin Netanyahu, il cui governo dovrebbe prendere forma proprio a metà  marzo. Prima del voto americano di novembre era il premier israeliano a potersi permettere un atteggiamento duro verso Obama (come fece in un memorabile discorso al Congresso di Washington, flirtando coi repubblicani). Dopo le due elezioni che hanno avuto luogo nei due paesi, Obama è stato riconfermato e rafforzato, Netanyahu si è indebolito.
Più complessa è la situazione tra i palestinesi dove cresce la forza di Hamas, e sono in corso le grandi manovre di riavvicinamento con i rivali del Fatah. Ecco uno dei rischi che la stampa israeliana già  indica per Obama: che in Cisgiordania il presidente americano si trovi a parlare davanti a uno striscione che proclama lo “Stato della Palestina”, e magari una carta geografica dove non compare Israele.
I temi nell’agenda della visita sono stati evocati dal portavoce di Obama, Jay Carney: la tragedia della Siria, e la minaccia nucleare in Iran. Carney ha evitato accuratamente di menzionare il “processo di pace”, per non alimentare aspettative eccessive. Ma è chiaro che Obama affronterà  tutto. Anche le primavere arabe. Il suo ultimo viaggio nell’area fu proprio il Cairo nel 2009, e quel suo discorso all’università  fu interpretato ex post come un incoraggiamento alle rivolte antiautoritarie.
Con l’Egitto in preda a nuove convulsioni autoritarie, la Tunisia anch’essa destabilizzata, nuovi pericoli dalla Libia all’Algeria, Obama dovrà  precisare la sua analisi di quel che sta succedendo, la sua visione, le strategie per il futuro dell’intera area che abbraccia Nordafrica e Medio Oriente.
Sarà  anche un battesimo di fuoco per il suo nuovo segretario di Stato, John Kerry. Di cui molti osservatori sottolineano gli ottimi rapporti con Israele. Kerry è un personaggio meno glamour di Hillary Clinton, ma potrebbe tranquillizzare degli interlocutori che avevano sentito l’America “distante”? Di certo questo viaggio segna il ritorno di Obama alla politica estera, e in grande stile. Il 2012 per forza di cose era stato un anno più “domestico”: in campagna elettorale, meno il presidente viaggia meglio è. Può esporsi all’accusa di curare gli affari del mondo trascurando i problemi degli americani.
Libero dalle preoccupazioni elettorali, Obama può cercare di fare quello che prima di lui sognarono Jimmy Carter e Bill Clinton: passare alla storia lasciando un’eredità  di pacificazione in Medio Oriente. Per i suoi predecessori le delusioni talvolta furono cocenti. Lo stesso Obama ha già  assaggiato un insuccesso: nel settembre 2010 orchestrò dei colloqui di pace diretti tra israeliani e palestinesi, per poi vederli naufragare in poche settimane. Ora dovrà  evitare che il suo viaggio si riduca ad una semplice “photo-opportunity”. Per mirare molto più in alto dovrebbe avere una nuova “road map”, un percorso verso la pace, possibilmente assortito da una tempistica.


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