Populismo e demagogia in toga Magistratura democratica accusa

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ROMA. Oggi si chiude il congresso di Magistratura democratica. Ieri a fare rumore sono state le critiche che il procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati ha rivolto alla procura di Trani, colpevole a suo giudizio di considerare «un optional» il principio della competenza territoriale. L’accusa muove dalla nuova inchiesta sui derivati emessi da cinque banche, tra le quali il Monte dei Paschi, che coinvolge anche gli ispettori della Consob e di Bankitalia. I magistrati pugliesi sono stati difesi dall’associazione dei consumatori e dal deputato del Pd Boccia, che al contrario hanno criticato la procura milanese per la sua inerzia.
Ma quello che con più forza è emerso nel corso di un congresso dove la situazione di difficoltà  di Magistratura democratica è stata onestamente affrontata, è probabilmente la preoccupazione (quando non l’insofferenza) delle toghe di sinistra verso le nascenti carriere politiche di alcuni colleghi celebri. Bruti stesso ha stigmatizzato il «protagonismo di certi magistrati che si propongono come cultori del Vero e del Giusto, magari con qualche strappo alle regole di garanzia». E lo ha inserito in una più generale e più allarmata diagnosi sullo stato della categoria: «La magistratura è percorsa da ventate di populismo e di demagogia, di chiusura corporativa, di ripiegamento grettamente sindacale, di disinvolture processuali». Parole forti, eppure molto meno di quelle con le quali venerdì Luigi Ferrajoli aveva scosso i congressisti.
«Atteggiamenti, culture e subculture antigarantiste che vanno diffondendosi nel mondo della giustizia e anche in una parte della sinistra» sono state l’oggetto dell’articolata requisitoria di Ferrajoli, che prima di lasciare la toga per la carriera accademica è stato magistrato, tra i fondatori di Md. Un quasi decalogo il suo – «Nove massime di deontologia giudiziaria» – dove a ogni passaggio si poteva riconoscere il protagonista in senso negativo. Antonio Ingroia, anche lui magistrato di Md, oggi candidato, leader di Rivoluzione civile. Accusato di nulla meno che «protagonismo, supponenza e settarismo». Una critica totale che nulla ha risparmiato, nemmeno gli aspetti tecnici dell’attività  di pm. Da giurista, Ferrajoli ha notato come «nel famoso processo sulla trattativa stato-mafia, non esistendo nel nostro ordinamento il reato di trattativa, è difficile capire come si possa, senza ledere il principio di tassatività  e il divieto di analogia, accomunare nel reato di minaccia a corpo politico sia gli autori della minaccia, sia quanti ne furono i destinatari o i tramiti o le vittime designate». Per Ferrajoli, cultore del dubbio e della prudenza nel giudizio, «è inammissibile che un pm scriva un libro intitolato Io so a proposito di un processo in corso da lui stesso istruito». Di più: il «giudice star» che «parla in pubblico e in televisione dei processi a lui affidati» andrebbe ricusato. Perché autore di una «strumentalizzazione del proprio ruolo istituzionale, con accenti di pura demagogia». Sostiene il giurista che «il populismo giudiziario è più pericoloso del populismo politico» perché almeno il secondo «punta al rafforzamento del consenso, che è la fonte di legittimazione dei poteri politici». Finale amaro: «Oggi l’immagine della magistratura presso il grande pubblico rischia di identificarsi con quella di tre pubblici ministeri divenuto noti per le loro inchieste, i quali hanno dato vita a una lista elettorale capeggiata da uno di loro, promossa da un altro con il contributo del partito personale del terzo. Un’immagine deleteria». Toghe candidate ci sono un po’ dappertutto, in tutti i partiti, ma queste tre che condanna senza appello, Ferrajoli non ha bisogno di nominarle.


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