Prodi, Amato ma anche il Professore Parte la corsa degli aspiranti al Colle

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E c’è un motivo se tiene un atteggiamento prudente anche davanti ai quei grandi elettori che dovranno votare in Parlamento il successore di Napolitano. È evidente la ragione che l’altra settimana l’ha indotto a respingere con irritazione le voci di un suo interessamento al prossimo conclave repubblicano, testimoniato peraltro da certi contatti con l’area grillina.
Non era «chiacchiericcio», il fatto è che ultimamente Prodi ha ripetuto a molti la stessa frase, quasi fosse un karma: «Dobbiamo parlare». Intanto si è portato avanti nel lavoro, sapendo di poter contare su Vendola e Renzi per conquistare alla causa anche qualche voto dei Cinquestelle, quando verrà  il momento. È vero, la sua partecipazione alla kermesse elettorale del centrosinistra a Milano può essere interpretata come la mossa meno quirinalizia per un candidato, e il Professore — come a smentire il disegno che gli viene attribuito — adotta questa tesi come scudo, perché «se realmente pensassi al Quirinale, quella presenza mi avrebbe danneggiato, collocandomi da una parte». A parte il fatto che Prodi è di parte — essendo stato l’ideatore dell’Ulivo e il fondatore del Pd — è proprio con quella apparizione che si è riproposto con forza sulla scena, imponendo nell’iconografia di centrosinistra l’immagine della «squadra». La foto di Milano, insomma, è come fosse stata la posa ufficiale dei candidati: Bersani con Vendola e Tabacci per palazzo Chigi, Ambrosoli per il Pirellone, e Prodi…
Allora è tutto fatto? Niente affatto. Perché il segretario del Pd ha dimostrato di non subire passivamente il gioco altrui: è già  accaduto quando ha deciso nel partito per le primarie, accadrà  di nuovo per la corsa al Quirinale, passaggio delicatissimo che dovrà  essere funzionale agli equilibri istituzionali. Nella testa di Bersani, quindi, nessuno può sentirsi prenotato per il Colle. Piuttosto il leader democrat osserva le prime mosse dei contendenti e registra le rivelazioni della Vezzali, che ha candidamente raccontato come Monti puntasse a sostituire Napolitano: ora le manovre del premier gli appaiono sotto una luce nuova, e sono accompagnate da un misto di ironia e di (finta) meraviglia. Né si sorprende quando viene a sapere del lavorio di Amato, che lascia intuire le aspirazioni di un altro potenziale papa laico. O quando apprende che il Cavaliere non avrebbe smesso di pensare a D’Alema, sette anni dopo la prima tentazione. Sono tutti indizi che danno l’idea di come la corsa al Quirinale sia iniziata da mesi.
L’unica cosa certa è che il futuro presidente della Repubblica uscirà  dal derby del centrosinistra, accreditato a vincere fra una settimana. Ma il risultato dipenderà  dal metodo che verrà  adottato. E su questo punto Bersani al momento non recede: la trattativa per il Colle — a suo giudizio — va «sganciata da quella per il governo». Il punto è se Monti e Casini, potenziali alleati del Pd dopo il voto, accetteranno questa regola o chiederanno un «patto preventivo» per il Quirinale da stringere insieme all’accordo sulla struttura dell’esecutivo.
Non è una questione di poco conto, il gioco è tutto lì. Il calendario politico — che prevede prima il varo del governo e poi l’elezione del nuovo capo dello Stato — sembrerebbe agevolare la strategia di Bersani, che ha un obiettivo: verificare le intenzioni di Berlusconi. Il Cavaliere, che pare destinato all’opposizione, vorrà  aprirsi al dialogo sulle riforme per una legislatura costituente, partecipando così alla scelta del nuovo presidente della Repubblica? Oppure, come nel 2006, si metterà  sulle barricate, puntando a far saltare una maggioranza fragile per tornare presto alle elezioni?
Sarebbe sorprendente se Berlusconi si acconciasse ad essere lo sponsor di Prodi al Quirinale. E siccome Prodi lo sa, per centrare l’obiettivo ha stabilito il perimetro entro cui muoversi, indicandolo nell’intervista al Sole 24Ore: sono «le forze riformiste che dopo le elezioni si stringono attorno al Pd in un patto di ferro che duri l’intera legislatura». In fondo, dopo la quarta votazione, per essere eletti al Colle basta la maggioranza semplice. E i voti di Ingroia e Grillo potrebbero compensare i franchi tiratori. Certo, si tratterebbe di un presidente della Repubblica «autarchico», ma non sarebbe la prima volta.


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