Rinnovare il patto col Pdl La scommessa (vinta) contro base e dirigenti

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MILANO — La svolta, quella vera, risale a cinque giorni prima della notte degli annunci. Il 7 gennaio Silvio Berlusconi prima e Roberto Maroni poi, dichiarano urbi et orbi il rinnovato accordo tra i loro partiti: «Un fatto storico» secondo il leader leghista. Ma l’incontro risolutore, quello in cui davvero la vecchia alleanza risorge, risale al 2 gennaio. Quando in via Rovani, la villa milanese del capo pdl, i due leader s’incontrano e superano le diffidenze che avevano toccato il loro culmine soltanto pochi giorni prima, tra Natale e San Silvestro. In quei giorni Isabella Votino, portavoce di Maroni ma anche suo ufficiale di collegamento con Berlusconi, ha il suo bel daffare a tenere rapporti messi sotto stress ogni mattina dalle indiscrezioni pubblicate sui giornali. Il nodo è il ruolo di Berlusconi. Che accetta di non essere il candidato premier.
Ma è lì che Roberto Maroni si gioca la scommessa della sua vita. Il movimento non vuole l’accordo, tutti i leghisti, dal militante che griglia le salamelle al dirigente di prima fascia, ripetono a nastro la stessa frase: «Che cosa ci hanno portato dieci anni di alleanza con Berlusconi?». Il grande freddo inaugurato dal sostegno del Pdl al governo Monti è stato quotidianamente martellato dal giornale, dalla radio, dalla tv leghista. La quiescenza del Pdl allo smantellamento del federalismo da parte del governo Monti indigna il movimento. Non c’è occasione pubblica in cui i leader leghisti non ripetano che non c’è possibilità  di discussione con chi sostiene il governo delle tasse e degli esodati.
Lo stesso Maroni, all’inizio, è pieno di dubbi. Ripete a tutti quelli che gli parlano che per la Lega il problema non è perdere le elezioni: «Il problema è perderle sostenendo Berlusconi. Quello sì sarebbe definitivo. In quel caso sì che per noi sarebbe finita». Sono i giorni in cui la popolarità  del fondatore del Pdl è ai minimi storici: il rischio di una doppia sconfitta è assai concreto. È vero, però, che non ci vuole un genio della matematica per capire che una corsa solitaria del Carroccio non avrebbe altro risultato che una sconfitta onorevole e magari qualche punto percentuale in più. Roba per contentare i militanti più militanti. Nel Carroccio lo sanno tutti che la Lega che corre da sola prende più voti — o molti più voti — rispetto alla Lega in alleanza. E la sconfitta potrebbe essere giocata in chiave identitaria, la partenza della «rifondazione» leghista. Per tutto l’autunno, Maroni non si sente ripetere altro. Non dai nemici. Dai suoi più stretti collaboratori. Matteo Salvini, il segretario lombardo, quando è di buon umore chiama Berlusconi «traditore». Flavio Tosi, il segretario veneto, dice che sarebbe meglio «spararsi un colpo in testa» piuttosto che allearsi ancora con il Pdl. Un concetto ribadito, con parole diverse, a quattro giorni dalle elezioni. Per giunta, il partito berlusconiano rischia di arrivare all’appuntamento elettorale a pezzi: in quei giorni Roberto Formigoni sostiene ancora Gabriele Albertini.
Tutto vero. Ma lui, Maroni, non è convinto. Tra l’altro, la bella morte segnerebbe anche la fine della strategia lanciata al congresso di luglio che lo ha eletto segretario. Quell’Euroregione del Nord che ha sostituito la Padania, fatta dall’allinearsi dietro a una guida leghista delle tre maggiori regioni settentrionali.
E così, l’uomo dagli occhiali rossi rompe gli indugi. Annuncia l’accordo con Berlusconi. Accetta di partecipare a una manifestazione elettorale dell’ex premier che sarà  criticatissima per quell’abbraccio e quella frase: «Lui è il mio presidente preferito… E non parlo soltanto del Milan». Ma la scommessa, alla fine, è vinta. Il partito paga un prezzo alto in termini di consensi. Ma chissà  se è soltanto per l’alleanza. Di certo, nelle vite parallele della politica italiana, è difficile non vedere una perversa simmetria tra Pier Luigi Bersani e Roberto Maroni. Il primo è l’uomo del «siamo arrivati primi, ma non abbiamo vinto». Il leader leghista è l’opposto speculare. Di certo non è arrivato primo, anzi. Però ha vinto.
Marco Cremonesi


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