Se Grillo fa il pieno anche a Torino

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La foto di Beppe Grillo e dei trentamila in piazza Castello a Torino evocava una sensazione di già  visto, ma così lontana negli anni da risultare mitologica e incerta al tempo stesso. Quello scatto, e quei numeri, hanno destato una forte impressione, sui social media e non solo. Con molte buone ragioni, perché l’ultimo trionfo personale di Grillo segna la rottura di un altro argine, nella politica che vive di simboli.
Appena a Natale sembrava finito. La dura reazione alla rivolta dei grillini emiliani aveva fatto emergere indubbie contraddizioni e annullato pretese di diversità  rispetto al resto dell’offerta politica. A metà  gennaio è cominciato lo Tsunami tour. Come già  avvenuto per le comunali a Parma e per le regionali in Sicilia, la piazza ha fatto da trampolino, gli ha ridato slancio. Tutto è nuovamente cambiato, anche se in molti hanno fatto finta di niente. Sul suo blog, Grillo pubblicava foto di piazze piene, quasi sempre in località  di provincia, accompagnate dalla dicitura ironica «non c’è nessuno». Nell’ultimo mese questa nuova sottovalutazione collettiva del suo movimento gli ha parecchio giovato.
Ma Torino è una svolta. Perché ha sempre rappresentato un’altra idea di politica, del tutto opposta a quella dell’ex comico. Lo stile estroverso, chiamiamolo così, di Grillo, è quanto di più lontano si possa immaginare dalla cultura politica torinese, e piemontese in generale. Non è neppure il caso di scomodare la sobrietà  sabauda, Gramsci, Gobetti, l’azionismo e i miti giacobini. Basta guardare al passato recente. Torino è sempre stata la bestia nera del populismo leghista. È la città  che non ha mai ceduto al mal di pancia, neppure quando Milano eleggeva sindaco il «barbaro» Marco Formentini, neppure quando, nel 2010, il voto delle altre province ha consegnato il governo regionale a Roberto Cota. Non è un posto di gente che esterna la propria passione, non è ribalta da politica spettacolo. Le grandi manifestazioni di piazza sono finite con i 35 giorni del 1980 e la marcia dei quarantamila a chiudere l’epoca delle adunate nell’unica città  d’Italia che aveva un Pci di massa.
Negli ultimi anni piazza Castello è diventata il luogo dei concerti, la medal plaza delle Olimpiadi invernali del 2006. Grillo ci aveva fatto il suo secondo «Vaffa day», con risultati neppure paragonabili a quelli di sabato. La scelta di tornarci, senza passare per la più capiente piazza San Carlo, lasciava intravedere un certo timore reverenziale. La risposta, invece, è stata impressionante. Piazza Castello riempita in quel modo ha il valore di un giudizio politico netto, di un cambio di stagione in corso, dopo che le amministrative del 2011 hanno segnato un’astensione massiccia, inusuale a quella latitudine. Nella foto dei trentamila c’è il segno di ciò che potrebbe succedere tra una settimana.
Il successo di Torino non è estraneo alla scelta di rinunciare all’unica comparsata in tivù. Quel bagno di folla ha confermato a Grillo di non avere alcun bisogno degli estrogeni televisivi. Anzi, a questo punto l’invisibilità  catodica diventa un ulteriore segno di distinzione. Ha la piazza, ha la rete, e tanto gli basta. Perché dovrebbe cambiare adesso, quando anche la concorrenza sta abbandonando gli studi televisivi per tornare in zona Cesarini al caro vecchio comizio? A una settimana dalle elezioni, il fondatore e unico titolare del Movimento 5 Stelle sa di potersi permettere un gesto di rottura, imponendo la sua scelta agli altri.
Certo, l’intervista televisiva implica il fastidioso inconveniente delle domande, che rischierebbero di mettere in risalto le incongruenze di un programma generico che si limita a enunciare buoni propositi senza indicare la strada e il metodo per raggiungerli. Ma ormai è andata, manca poco. E alcune reazioni all’annullamento della sua intervista a Sky sono pronunciate con una tracotanza che risulta fuori tempo massimo. Chi legge un segno di debolezza nella rinuncia di Grillo sbaglia di grosso. È l’esatto contrario.


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