Spagna, fra i nuovi poveri di un Paese in ginocchio

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MADRID — Ogni giorno che passa in Spagna si perdono ottomila posti di lavoro. Ieri è toccato a Rodrigo, 40 anni e una figlia, sceneggiatore in una grande agenzia che realizza serie tv per le principali reti del paese. Ci lavorava da 10 anni ma «ormai — dice — con il crollo della pubblicità  le tv rinunciano a produrre sceneggiati in Spagna. Comprano e doppiano quelli stranieri, costano meno ». Pedro, invece, lo hanno licenziato prima di Natale da una compagnia di assicurazioni «All’inizio — racconta — ogni giorno sembrava sabato. Mi alzavo un po’ più tardi, andavo a correre al parco. Cercavo qualcosa da fare. Poi è arrivata l’angoscia: il cellulare non squilla mai e nessuno risponde ai tuoi curriculum. Tra qualche mese non saprò come pagare le tasse universitarie di mia figlia». Dopo il grande botto dell’industria immobiliare, la prima a crollare quando è scoppiata la crisi dei mutui, oggi in Spagna nessun posto di lavoro è sicuro: anche la classe medio-alta ed i professionisti sono investiti dalla frana e vivono nell’incertezza. «Ma il peggio deve ancora arrivare — spiega l’economista Bruno Estrada — perché nei primi 2 anni ci sono i mille euro del sussidio di disoccupazione che già  dissanguano il bilancio dello Stato, ma poi?».
Nelle scenario urbano della capitale l’increspatura della nuova povertà  diventa sempre più visibile. Ieri pomeriggio davanti ad un Vips, i bar aperti fino a notte fonda, c’era un giovane ex studente universitario che chiedeva l’elemosina con un cartello al collo: «Professore disoccupato». Nella Plaza Mayor è pieno di gente che dorme per terra sotto i portici e lungo la Castellana a gruppi di quattro o cinque avvolti nei cartoni. E ci sono giorni nei quali anche i quotidiani sembrano bollettini di guerra: Bankia, 4500 licenziamenti; Vodafone, 900 esuberi. Lo scorso Natale uno dei regali più diffusi nelle famiglie di classe media erano i buoni acquisto per i figli da usare nei negozi a gennaio, quando sarebbero arrivati i saldi. Il regalo posticipato. Il consumo è crollato e chi non vuole chiudere è costretto a svendere: abiti, elettrodomestici e weekend sono in saldo con sconti dal 15 al 50 per cento.
In un anno di governo del centrodestra, dopo la trionfale vittoria di Mariano Rajoy alle elezioni del novembre 2011, i disoccupati sono aumentati di un altro milione ed oggi sono quasi sei milioni. Erano meno di due sei anni fa, nel 2007. Un terremoto sociale che nulla riesce a fermare. Oggi lo stesso primo ministro è al centro di uno scandalo per corruzione e la notizia, pubblicata ieri dal Paìs, di un aumento di stipendio pari al 30% che si concesse da leader del PP nel 2007, genera rabbia.
Per uscire dal tunnel la destra ha provato la strada della riforma del mercato del lavoro, rendendo per le imprese facilissimo licenziare: liquidazione pari a venti giorni per ogni anno lavorato. Senza motivazioni né trattative sindacali: basta presentare al ministero del Lavoro una previsione di bilancio in negativo. Un anno fa Rajoy presentò il piano come la panacea per far ripartire il mercato, ma oggi anche gli economisti più conservatori ammettono il collasso: «Ha solo l’effetto di distruggere posti di lavoro, non ne crea», dicono. Rajoy e la Confindustria contestano i dati sulla disoccupazione dell’Epa, l’inchiesta sulla popolazione attiva, e riconoscono solo quelli dell’Inem, ossia gli uffici statali dove le persone in cerca di lavoro si registrano. Per l’Inem i disoccupati sono «solo» 5 milioni e, chissà  perché, questo dato quasi rasserena i funzionari governativi. Da qualche settimana e come misura precauzionale davanti agli uffici per i senza lavoro sono proibite le file. «Bisogna telefonare e prendere appuntamento, oppure scrivere via Internet», ci racconta Belen, 40 anni e 4 figli, appena licenziata da un ufficio stampa dove guadagnava 400 euro in busta paga e altri 300 in nero, senza tasse e oneri sociali per l’azienda.
Ma adesso la vera strategia è un’altra. Nella riforma del lavoro di Rajoy c’era un’idea che all’inizio neppure i sindacati avevano capito bene. Con l’Ere (Expediente de regulaciòn de empleo) — l’eufemismo che si usa per dire «licenziamenti» — si possono anche tagliare i salari di quelli che restano. Si chiama «svalutazione competitiva interna. Così oggi si taglia il costo della forza lavoro, sperando di attirare nuovi investimenti dall’estero: e in tutte le aziende i salari diminuiscono del 25-30%, rinunciando in cambio a qualche altro licenziamento.


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