Viaggio nell’Italia della collera

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«Vedi tutte quelle finestre accese di quei condomini? Dietro ogni finestra ci sono un uomo, una donna, una storia… Spoon River! Spoon River!» Venivano le lacrime agli occhi, a Marco Nozza, quando rideva di come Gaetano Afeltra, a «Il Giorno», l’incitava a non incaponirsi sulle piste nere per occuparsi piuttosto, nel solco di Edgar Lee Masters, delle piccole storie esemplari della gente comune… Il grande inviato, cocciuto, tirava dritto. Ogni tanto, però, dava soddisfazione al capo. E ne uscivano pezzi formidabili.
Concita De Gregorio non ha conosciuto «Don» Gaetano. Altra generazione, altra scuola. Ma nel suo ultimo libro, Io vi maledico (Einaudi Stile Libero, pp. 192, €16), sembra essersi mossa rispettando quella consegna: «Segui le finestre accese, trova le storie». E passo dopo passo ne ha trovate di straordinarie. Che accavallandosi l’una sull’altra compongono un ritratto dell’Italia di oggi. Un’Italia in collera. Dove sono in tanti ad avere buoni motivi per lanciare quella invettiva che dà  il titolo al reportage. Invettiva ispirata da una lapide piazzata a casa sua dieci anni fa, al quartiere Tamburi di Taranto, in faccia all’Ilva, dall’operaio Giuseppe Corisi. Che nel vuoto che inghiottiva le urla di angoscia che salivano dal quartiere dove troppe famiglie piangevano un marito, un figlio, un fratello uccisi dal cancro, diceva: «Nei giorni di vento da nord veniamo sepolti da polveri di minerale e soffocati da esalazioni di gas provenienti dalla zona industriale Ilva. Per tutto questo gli abitanti maledicono coloro che possono fare e non fanno nulla per riparare». È morto, l’autore dell’invettiva. Il giorno prima di andarsene, telefonò dall’ospedale per dire ai familiari di mettere un’altra lapide: «Qui abitava Giuseppe Corisi ennesimo morto per neoplasia polmonare».
Quello della giornalista di «Repubblica» non è però solo un viaggio nella miseria, nella disperazione e nel degrado, sul modello di quello che il grande Jacob Riis fece in tempi lontani ricavandone un libro leggendario, Come vive l’altra metà . La collera può essere quella di Anna che il giorno della laurea, frutto dei sacrifici immani del padre muratore, scopre che il suo vecchio professore non ha letto la sua tesi perché non sapeva manco aprire le email: «Il giorno della tesi è stato il più brutto della mia vita. Si vedeva che nessuno l’aveva letta. La presidente di commissione si è attaccata a un cavillo, lui è rimasto in silenzio. Mi hanno dato 108, avevo 104 di media. Sono andata in bagno e ho pianto un’ora. Ma non per il voto, chi se ne importa dei voti, ma per la sciatteria, la sproporzione fra la mia fatica e la loro. Fra quella dei miei genitori e la loro».
È in collera Claudio Stassi, che fa tavole di fumetti ed è arrivato a disegnare Dylan Dog dopo essere stato costretto a lasciare Brancaccio, il quartiere di Palermo dov’era cresciuto. Aveva fatto un libro su una storia di mafia quotidiana («il mio primo omicidio l’ho visto coi miei occhi a otto anni») e siccome a Brancaccio non ci sono librerie l’aveva presentato nella scuola di un quartiere vicino con Rita Borsellino: «Il giorno dopo alla preside della scuola hanno tagliato le gomme della macchina». Una settimana più tardi un tizio lo fermò per strada: «Siccome mi stai simpatico, conosco la tua famiglia, ti consiglio di non fare mai più un libro del genere. Che questo sia l’ultimo». Adesso vive a Barcellona, «una Palermo che funziona».
È in collera Vainer Marchesini, che ha un’impresa di macchine di precisione per il trasporto polveri a Cavezzo, nell’Emilia terremotata: il sisma gli ha buttato giù i capannoni, danni per 31 milioni, risarciti 16, nessun contributo pubblico, niente sgravi fiscali. Eppure otto settimane dopo tutti gli operai erano già  al lavoro e negli altri stabilimenti ha continuato a assumere a dispetto della crisi. Ce l’ha con la finanza: «La ricchezza è nelle cose, nella terra e nel mare, nel lavoro che li trasforma, nella manifattura, nell’ingegno che produce gli oggetti. Non nella finanza, no. Quello è un inganno. Eppure guardi, qui non abbiamo neppure le strade per portare nel resto del mondo i pezzi che produciamo solo noi. È come se fossimo monaci che si ostinano a praticare una religione estinta: quelle che ci hanno insegnato i nostri nonni e i nostri padri che anche la domenica, anche a Natale andavano nei campi».
E poi il camionista Stefano Sciancalepore, che chiede giustizia per suo figlio Biagio ucciso dai gas di una cisterna in cui il ragazzo si era precipitato per aiutare gli amici entrati per pulire il serbatoio e avvelenati dalle esalazioni: «Le istruttorie e i processi hanno accertato che lo zolfo fuso uscito dal petrolchimico Eni di Taranto conteneva una quantità  di acido solfidrico (esalazione tossica e inutile alla produzione) quasi venti volte superiore a quella consentita dai parametri di sicurezza». E Emmanuela Antonucci, che quando crollò la palazzina di Barletta in cui morirono cinque donne che lavoravano in un maglificio ignoto ai censimenti, era al quinto mese di gravidanza e fu estratta viva dalle macerie e racconta che da tre anni, prima del crollo, erano in causa con l’impresa che aveva buttato giù con le ruspe l’edificio adiacente senza porsi i problemi di stabilità  : «E sono cominciate subito le crepe, i pavimenti che si spostavano, le porte che non si aprivano più…».
È furente Flavia Schiavon, che si è chiusa in se stessa dopo avere denunciato quel sistema infame che aveva spinto suo papà  Giovanni, un imprenditore padovano, a spararsi. Aveva 200 mila euro di debiti, 500 mila di crediti. Ma i suoi debitori non pagavano: «Il meccanismo è questo: la ditta A prende un appalto dal committente, poniamo per 100 mila euro, e dà  i lavori in subappalto alla ditta B. La ditta B paga i materiali, paga i dipendenti compresi i contributi naturalmente, realizza l’opera. A 60 o a 90 giorni il committente paga la ditta A la quale, presi i 100 mila euro, svanisce. Di solito è una Srl. Non c’è più. Tu chiami e non risponde al telefono, la sede è vuota, le persone cambiano numero. Non ti puoi difendere, perché all’inizio sembra tutto in regola: preventivi, garanzie, tutto». E via via che vai avanti a leggere le storie di Concita De Gregorio, emerge con chiarezza un punto. E cioè che non è solo un problema di crisi economica, di complotti internazionali, di spread, di feroci multinazionali finanziarie. Alle persone di questo Paese, sopra ogni altra cosa, manca uno Stato giusto. Che dia ragione a chi ha ragione, torto a chi ha torto.


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