A due famiglie su tre il reddito non basta

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ROMA — Due famiglie su tre, il 65% del totale, pensano di avere un reddito inferiore al necessario. Erano il 40% nel 1990. E non è un caso che tale disagio – riscontrabile in tutta la penisola – sia più elevato al Sud, nei nuclei con il capofamiglia meno istruito, disoccupato o pensionato. È la povertà  che avanza spinta dalla crisi, partendo dalle zone tradizionalmente più arretrate. A denunciarla, una volta di più, sono due studi della Banca d’Italia, che non si limita però a segnalare gli allarmi sull’impossibilità  di vivere con dignità , provenienti da una parte crescente della popolazione, complici la recessione e l’aumento della disoccupazione, già  in qualche misura conosciuti (l’indagine è sui redditi del 2010). Ma analizza, verificando i significativi dati sul crollo della propensione al risparmio, il cambiamento sociale ed economico dell’Italia negli ultimi vent’anni. Perché – ed è la tesi dei ricercatori di Palazzo Koch – la crisi ha solo accelerato un processo di impoverimento iniziato da tempo con il rallentamento della crescita e della competitività .
Un primo risultato di tale analisi fa giustizia del coro di accuse di iniquità  lanciate contro l’Imu, l’imposta sugli immobili. Dai dati di Bankitalia risulta infatti che le famiglie più povere, con meno reddito, sono quelle che abitano in case in affitto e non di proprietà . Il divario è importante: la percentuale delle famiglie povere rispetto al reddito è del 33,8% fra gli affittuari (era il 15,4% nel 1991 e il 24,4% nel 2000) mentre è del 6,1% tra i proprietari di casa (era il 6,3% nel 1991 e l’8,3% nel 2000).
Le differenze diventano più sensibili quando entra in campo l’età : i giovani sono indubbiamente penalizzati. Lo dicono già  le indagini sull’occupazione ed ora lo confermano quelle sul reddito e la ricchezza. Le famiglie under 35 povere per reddito sono il 29% contro il 12,8% del campione nazionale (erano rispettivamente il 5,8% e il 9% nel 1991 e il 12,1% e il 12,4% nel 2000) mentre quelle giovani povere sia per reddito sia per ricchezza (inclusa l’abitazione) sono il 29,1% rispetto al 14,1% del totale del campione (rispettivamente il 9,8% e il 7,2% nel 1991 ed il 17,2% e l’11,7% nel 2000).
E veniamo al risparmio: negli ultimi venticinque anni il tasso di risorse accantonate o investite dalle famiglie italiane, storicamente elevato nel confronto internazionale, è diminuito sensibilmente da oltre il 25% nella metà  degli anni 80 all’8,6% nel 2011, un livello inferiore a quello rilevato negli altri principali Paesi dell’euro. La flessione è stata di quasi quattro punti percentuali tra il 2007 e il 2011 ed è avvenuta a fronte di una sostanziale stazionarietà  in Francia e in Germania. La quota di famiglie che ritengono di avere effettive possibilità  di risparmio si è collocata quindi su livelli storicamente bassi, intorno al 30% dalla metà  dello scorso decennio (era sul 50% all’inizio degli anni Novanta). La percentuale di nuclei con reddito inferiore ai consumi (risparmio negativo) è aumentata di quasi tre punti tra il 2008 e il 2010, fino a raggiungere il 22%. Sulla base di una simulazione condotta per il sottocampione dei giovani con elevata istruzione, il divario tra coloro che ritengono, rispettivamente, opportuno e possibile risparmiare è aumentato soprattutto fra quelli che vivono soli, in affitto e che sono titolari di un contratto di lavoro a tempo determinato. Gli under 35 però fanno in generale fatica a risparmiare perché sono, come si è visto, i più penalizzati sia sul fronte del reddito che su quello della ricchezza. Le prospettive per le famiglie giovani sono ancora più sfavorevoli se si tiene conto delle recenti riforme del sistema pensionistico e del mancato successo delle forme di pensione integrativa. I dati macroeconomici più recenti indicano poi – dice Bankitalia – una ulteriore riduzione del reddito e un peggioramento del tasso di risparmio, prefigurando quindi un successivo inasprimento delle condizioni finanziarie delle famiglie più vulnerabili in assenza di opportune misure di sostegno o di una ripresa del ciclo economico.
La ricchezza finanziaria, infine. Poco più della metà  è detenuta in forma liquida, depositata in banca o presso un ufficio postale: nel 2010 il peso dei depositi nel portafoglio delle famiglie era pari al 54%. La percentuale di attività  rischiose (fondi comuni, azioni e attività  estere) al 23%. I titoli pubblici rappresentavano nel 2010 appena l’11%, in netta diminuzione rispetto all’inizio degli anni Novanta, quando la quota investita in titoli pubblici era pari a un terzo delle attività  totali, sostituita in parte, in questi venti anni, dalle obbligazioni bancarie, il cui peso è notevolmente aumentato durante la crisi.


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