Boldrini «Partii e mio padre non mi parlò più» Alla Camera una paladina dei diritti

by Sergio Segio | 17 Marzo 2013 7:44

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Tenerla ferma nella gabbia dorata di Montecitorio: questo sarà  il problema. Perché Laura Boldrini, eletta ieri alla guida della Camera, appartiene a quelle specie animali che non vivono in cattività . Dopo un po’ che sta ferma e non vola via, comincia a mancarle l’ossigeno.
Forse per questo ha chiuso il suo discorso di insediamento dicendo: «Oggi iniziamo un viaggio». Un viaggio non nello spazio, si capisce, ma attraverso una politica diversa, che «deve tornare ad essere una speranza, un servizio, una passione». Che si occupi di «chi ha perduto certezze e speranze», che ingaggi «una battaglia vera contro la povertà  e non contro i poveri», che sappia «ascoltare la sofferenza sociale di una generazione che ha smarrito se stessa, prigioniera della precarietà , costretta spesso a portare i propri talenti lontano dall’Italia», che si faccia «carico (passaggio accolto da una standing ovation a sinistra, da una certa freddezza perfino di alcune deputate di destra) «dell’umiliazione delle donne che subiscono violenza travestita da amore».
Una politica che riesca finalmente a stare «accanto a chi è caduto senza trovare la forza o l’aiuto per rialzarsi, ai tanti detenuti che oggi vivono in una condizione disumana e degradante». E poi a chi «ha perso il lavoro o non lo ha mai trovato». E «ai tanti imprenditori che costituiscono una risorsa essenziale per l’economia italiana». E «a quei pensionati che hanno lavorato tutta la vita e che oggi non riescono ad andare avanti». E ogni citazione del suo discorso pareva una tappa di un itinerario alla riscoperta di mondi troppo spesso dimenticati dalla «politica politicante». I migranti, l’ambiente, i bambini, la disabilità …
La sua casa romana, ha scritto Famiglia Cristiana che la premiò come italiana dell’anno 2009 per «il costante impegno, svolto con umanità  ed equilibrio, a favore di migranti, rifugiati e richiedenti asilo», trabocca di ricordi di viaggio nello Yemen, in Madagascar, Tagikistan, Perù, Pakistan, Afghanistan… Accumulati in trent’anni percorsi girando come una trottola tutti i continenti. Alla scoperta di spazi che fossero un po’ più grandi di Matelica, l’antico borgo collinare in provincia di Macerata, nelle Marche, dove ha fatto le elementari prima del trasferimento per le medie e il liceo classico a Jesi.
«Io e i miei fratelli andavamo alla scuola rurale, vivevamo in un mondo chiuso, ovattato. La voglia di partire è nata lì», spiegò al settimanale cattolico diretto da Don Antonio Sciortino. «Sono la più grande di cinque figli, due femmine e tre maschi. Mia madre ci ha allevati lavorando: era insegnante di Arte, poi ha fatto l’antiquaria. Nella mia famiglia sono tutti artisti, tranne me e mio fratello Ugo: siamo i pragmatici di casa».
Il papà , come raccontò a Paolo di Stefano, faceva l’avvocato ed era «un uomo molto speciale: riservato, studioso, solitario, tradizionalista, molto religioso» che amava «la campagna e la musica classica» e spesso si esprimeva a tavola in latino e in greco: «I suoi princìpi non si coniugavano con la mia curiosità ».
Cresciuta nella parrocchia di San Filippo, era legatissima a Don Attilio, un prete attentissimo agli ultimi: «Ho imparato lì la vita nel gruppo, l’amore per la natura, il rispetto dei più deboli, lo spirito del servizio». Presa la maturità , contro il volere del padre si preparò uno zaino e partì per il Venezuela, «a lavorare in una “finca de arroz”, un’azienda di riso a Calabozo». La misero in ufficio, «ma io volevo conoscere la vita nei campi: rimasi lì tre mesi, abbastanza per capire come vivono i contadini in quella parte del mondo, li vedevo lavorare duramente per otto ore, poi la sera andavano nei bar a spendere i soldi che avevano guadagnato di giorno». Tre mesi dopo, partiva in autobus, tra campesinos, maiali e galline, per un lungo viaggio verso Nord: Panama, Costa Rica, Nicaragua, Honduras, Guatemala, poi Messico e Stati Uniti, fino a New York.
Rientrata in Italia, si iscrisse a Giurisprudenza alla Sapienza, a Roma: «Sei mesi a studiare come una pazza e dare esami, gli altri sei a viaggiare». La prese, come voleva il padre («non mi parlò per otto anni») quella laurea in Legge: 110, con una tesi sul diritto di cronaca. Mentre studiava, lavorava all’Agenzia italiana stampa e migrazione: «Mi occupavo di selezionare le notizie che potevano essere rilevanti per i giornali delle comunità  italiane all’estero».
Entrata come giornalista alla Rai, mollò tutto nell’89, quando aveva 28 anni, vincendo un concorso dell’Onu per «Junior Professional Officer»: «Ho lavorato cinque anni alla Fao, poi il capo ufficio stampa del Pam, il Programma alimentare mondiale, mi chiamò per chiedermi se conoscevo qualcuno che curasse i rapporti con la stampa italiana e mi proposi». Era sposata, allora. E incinta: «Stavo aspettando mia figlia, Anastasia, mi ricordo che mi presentai al colloquio con la pancia». Nel febbraio del 1998, la destinazione definitiva: portavoce dell’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati.
«Uno degli organismi che non contano un fico secco, finché la stampa non decide che conta», avrebbe ironizzato anni dopo Ignazio La Russa. Non sopportava, l’allora ministro della Difesa, la passione con cui Boldrini attaccava la scelta italiana dei respingimenti (ci scrisse anche un libro: «Tutti indietro») sostenendo, Costituzione alla mano, che gli aspiranti immigrati fermati sui barconi non potevano venire respinti senza che fosse prima controllato se non avessero diritto all’asilo, tanto più che la Libia di Gheddafi non aveva il minimo rispetto per i diritti umani. Ringhiò La Russa: «La Boldrini o è disumana — e io l’accuso — perché pretende che li teniamo per mesi rinchiusi nei centri per poi espellerli, oppure è criminale perché vuole eludere la legge e vuole che una volta qui scappino e si sparpaglino sul territorio».
Lei, mentre intorno si alzavano reazioni indignate, liquidò la cosa così: «Parole che si commentano da sole». E tirò diritto: «I numeri parlano chiaro: i rifugiati da noi sono ancora pochi, 47 mila, contro i 600 mila della Germania, 300 mila in Gran Bretagna, 150 mila in Francia. L’80% dei rifugiati vive nel Sud del mondo, non in Europa».
Certo, c’è chi dirà  (e qualche voce critica si è già  levata) che Laura Boldrini non è mai stata una donna «al di sopra delle parti». Ed è vero. Basta leggere il suo libro in uscita per Rizzoli, «Solo le montagne non si incontrano mai», dove racconta (insieme con lo strazio della morte nel giro di un anno del padre, della madre e della sorella Lucia) la storia di Murayo, una bambina gravemente malata e «adottata» dai soldati del nostro contingente e da lei riportata in Somalia a rivedere il padre, per trovare la conferma: la donna che ha preso il posto di Fini, non è tipo da barcamenarsi sugli equilibri equidistanti. Sai sempre da che parte sta. E questo, a chi non la pensa come lei, può non piacere. Di più: lo stesso discorso di insediamento sarà  certamente apparso a molti schieratissimo.
Chi la conosce, però, sarebbe disposto a scommettere che, prendendo sul serio il nuovo ruolo, potrebbe riuscire a smentire i diffidenti e ad essere davvero ciò che ha promesso: «Sarò la Presidente di tutti, a partire da chi non mi ha votato». E magari potrebbe anche essere fedele all’impegno più solenne che ha preso: «Facciamo di questa Camera la casa della buona politica, rendiamo il Parlamento e il nostro lavoro trasparenti, anche in una scelta di sobrietà  che dobbiamo agli italiani…». Sempre che, si capisce, sappia resistere in certi momenti di asfissia alla tentazione di volarsene via…
Gian Antonio Stella

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