Dai No Global agli Indignados tutti i «debiti» del Movimento

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«Les haricots verts…». Con Beppe Grillo ognuno ha il suo momento di già  visto, già  sentito, che evoca ricordi neppure troppo lontani. «In Sicilia buttiamo via le arance perché la finanza ha truccato il prezzo di quelle tunisine rendendole più convenienti. È questa l’economia che vogliamo?».
In quel passaggio fisso dei comizi dello Tsunami tour sembrava davvero di risentire la voce roca di José Bové, il contadino francese che dichiarava guerra alle multinazionali e a cavallo del cambio di secolo divenne uno dei volti più noti della breve epopea no global. «Les haricots verts…». Con i fagiolini verdi e il Marocco al posto di arance e Tunisia, ma diceva la stessa, identica cosa, in abbondante anticipo sul fondatore del M5S.
Grillo non si è inventato nulla, ma ha saputo occupare lo spazio lasciato dai movimenti, che hanno attraversato l’ultimo decennio in silenzio, ridotti all’irrilevanza da errori propri e dalle porte che la politica gli ha sempre sbattuto in faccia, magari dopo le consuete blandizie elettorali, come avvenuto nel 2006 con Fausto Bertinotti e Rifondazione comunista, la fine della storia no global.
Ad avere voglia di vederla davvero, la realtà  dei fatti era sotto gli occhi di tutti, anche se dolorosa soprattutto per una sinistra radicale che oggi dovrebbe essere la maggiore indiziata di mea culpa per l’avanzata di M5S. Il debito del M5S con quella stagione è evidente. Democrazia partecipata? I primi tre forum sociali, dal 2001 al 2003, vennero fatti a Porto Alegre, Brasile, che era la capitale di quell’idea. Reddito di cittadinanza? Nelle proposte di Genova 2001. Beni comuni? Idem come sopra.
M5S può anche essere visto come una sorta di movimento-macedonia, che mette insieme pezzi diversi di altre esperienze. L’invito a riprendersi la vita lavorando di meno rimanda, forse involontariamente, agli indiani metropolitani del ’77. Il culto delle teorie economiche di Joseph Stiglitz cominciò con no global, e persino il «tutti a casa» discende dal movimento spagnolo degli Indignados.
Anche i discorsi sull’inattuabilità  del programma di M5S sono un déjà  vu, per quanto giustificato dal principio di realtà .
Grillo ha rilevato una azienda in liquidazione, mettendo nuove insegne, usando Internet, e non la vecchia piazza, come megafono. La sua ascesa è legata in modo indissolubile al declino dei movimenti contro la globalizzazione di inizio secolo. Da Genova 2001 alle campagne per i beni comuni, ha preso tutto l’armamentario ideologico di quelle esperienze, allargando il loro bacino di utenza con una narrazione che si presenta ormai oltre la destra e la sinistra, con un solo protagonista.
Ogni protesta contro il sistema è finita quasi per inerzia tra le sue braccia, che sia la Tav, i termovalorizzatori o i rifiuti. Ma l’ex comico è un ribelle, non un rivoluzionario come ambivano a essere coloro che l’hanno preceduto. La differenza sta soprattutto nella sostituzione dell’utopia di allora con un apparente pragmatismo che rende il suo messaggio commestibile a palati differenti tra loro. Grillo non sogna un altro mondo possibile, gli basta accanirsi su una «casta» mai così debole come oggi.
Le idee dei vecchi movimenti, amplificate a dismisura dalla rete e mescolate con dosi massicce di legalitarismo, hanno dimostrato di esercitare ancora una certa presa, soprattutto se confrontate con gli stenti dell’attuale pensiero politico. Sono diventate patrimonio esclusivo del suo popolo, una rivendicazione di vitalità  da contrapporre al grigiore della casta, corrotta e sfiancata per definizione. In modo inconsapevole, forse Grillo sta celebrando la vendetta dei vecchi movimenti su una politica autistica. Ma cambiando il senso delle loro vecchie proposte, privandole dello slancio idealista, chiamiamolo così, ne certifica anche la sconfitta definitiva.


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