Diritti civili, la mappa di un’America divisa
NEW YORK — Il nome, Stati Uniti d’America, suggerisce coesione e uniformità d’intenti ma sul campo dei diritti la grande democrazia americana non potrebbero essere più divisa e disuguale. Mentre, sulla scia degli Stati progressisti del Nordest, la Corte Suprema di Washington si appresta a spianare la strada alle nozze gay anche a livello federale, un numero crescente di Stati repubblicani è intento a invertire le lancette dell’orologio.
A catturare lo Zeitgeist del Paese è l’autorevole rivista Time, che ieri ha deciso di uscire con una doppia copertina: in una si baciano due donne, nell’altra due uomini, sotto al titolo «I matrimoni gay in America hanno già vinto». Un ottimismo ispirato dai nove sommi giudici della Corte Suprema. Chiamato a esaminare due ricorsi presentati da alcune coppie gay — contro il divieto dei matrimoni gay introdotto in California da un referendum e contro il Defense of Marriage Act del 1996 che impedisce al governo federale di riconoscere le nozze gay legalizzate in nove Stati — il più alto tribunale del Paese ha espresso dubbi sulla costituzionalità delle due leggi.
Persino il giudice Anthony Kennedy, il moderato considerato l’ago della bilancia della Corte, ha detto che queste interdizioni «non promuovono una uniformità nel trattamento dei cittadini». Ma sullo stesso numero di Time spicca anche il caso Nord Dakota. Quarant’anni dopo la storica sentenza della Corte Suprema Roe vs. Wade che nel 1973 legalizzò l’aborto, il governatore dello Stato Jack Dalrymple, ha firmato una delle leggi più rigide al mondo, che vieta la procedura «se si può sentire il battito cardiaco del feto, a circa sei settimane di gravidanza». Ovvero quando molte donne non hanno ancora scoperto di essere incinte. La norma varata dal governatore repubblicano non ammette l’interruzione di gravidanza neppure in caso di stupro o di difetti genetici del feto, come la sindrome di Down. E se non bastasse, venerdì scorso il Nord Dakota è diventato il primo stato Usa a varare il cosiddetto «fetal personhood amendment», che accorda pieni diritti legali «di individuo» all’embrione, dal momento stesso della fecondazione. Se gli elettori lo approveranno mediante referendum alle elezioni di mid-term del novembre 2014, il Nord Dakota diventerà il primo Stato dell’Unione ad emendare la propria costituzione per vietare l’aborto anche in caso di stupro, incesto e pericolo di vita per la madre. «Gli oppositori dell’aborto stanno lavorando con metodo e pazienza da 40 anni per erodere questo diritto”, mette in guardia Andrew Rosenthal, capo della pagina degli editoriali del New York Times secondo cui è solo questione di tempo «prima che la questione ripiombi di fronte alla Corte Suprema».
Ma l’aborto non è l’unico diritto a rischio oggi per milioni di donne americane. «Quarantadue Stati hanno introdotto leggi che limitano l’accesso alla medicina riproduttiva», punta il dito Cecile Richards, capo di Planned Parenthood, organizzazione non profit che fornisce assistenza medica a basso costo a milioni di donne indigenti ma invisa alla destra perché il 3% dei suoi servizi sono aborti. E aggiunge: «Vengono negati servizi essenziali quali mammografie, contraccettivi e cure antitumorali». Una battaglia senza fine, quella dei diritti civili in America, che i politici più conservatori vorrebbero riportare nell’ambito dei singoli stati. «Le corti e il Congresso non devono interferire con il diritto degli stati di stabilire la propria agenda —, teorizza Tim Wildmon, presidente dell’influente gruppo conservatore American Family Wildmon —. Se vuoi essere una coppia omosessuale sposata, trasloca in uno Stato che ti accetta».
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