FINANZIAMENTO PUBBLICO. Perché monta la protesta contro i costi della politica

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Tre settimane dopo, il presidente del Consiglio Mariano Rumor presentò le dimissioni (per quanto incredibile possa sembrare al giorno d’oggi, c’è stato anche in Italia un tempo in cui la scoperta di un caso di corruzione provocava la caduta del governo).
Mentre arrossivano per la vergogna di essere stati scoperti, i partiti si domandavano come avrebbero potuto rimpiazzare quell’inconfessabile sorgente di denaro. La risposta fu trovata rapidissimamente: con il finanziamento pubblico. Inattaccabile la motivazione: se vogliamo evitare la tentazione di farci corrompere, dobbiamo poter contare su un contributo alla luce del sole. La legge, stesa dal futuro segretario democristiano Flaminio Piccoli, fu approvata a tempo di record: in sedici giorni finì sulla Gazzetta Ufficiale.
Ebbe così inizio la lunga e non proprio limpida storia del finanziamento pubblico ai partiti. Con cifre, diciamolo subito, assai diverse da quelle di oggi. Nel 1976 alla Dc toccarono 5,1 miliardi di lire, e al Pci 4,6 miliardi. Briciole, se confrontate ai 57 milioni 974 mila euro (in lire: 112 miliardi 295 milioni) che il solo Partito democratico ha ricevuto nel 2011. Ma erano gli anni in cui tutti sapevano che i partiti stavano in piedi grazie ai finanziamenti sottobanco che arrivavano non solo dai petrolieri ma anche dai comunisti sovietici, e dunque ci fu davvero chi si illuse che quei soldi pubblici interrompessero il torbido fiume di denaro nero che alimentava la politica. Così il primo referendum abrogativo, nel 1978, fu bocciato: i Sì si fermarono al 44 per cento.
Poi però esplose Tangentopoli, e gli italiani non credettero più all’effetto moralizzatore di quei contributi miliardari. E nel 1993, con il secondo referendum promosso dai radicali, diedero una sberla ai partiti: l’abrogazione passò con il 90,3 per cento. Sembrava la fine della storia. E invece no. Abolito il “finanziamento pubblico”, nel 1993 i partiti si sono inventati i “rimborsi elettorali”: 1600 lire per italiano, e calcolando non i votanti e nemmeno gli elettori, ma tutti gli abitanti della penisola, inclusi i neonati.
Ed era solo la prima crepa nella diga del referendum, una crepa che tutti – esclusi i soliti radicali – hanno lavorato per allargare. Prima la beffa del 4 per mille, così imbarazzante che non si è mai saputo quanti furono gli italiani a barrare quella casella. Poi l’aumento da 1600 a 4000 lire. Quindi, con l’euro, la conversione con raddoppio e generoso arrotondamento: da 4000 lire a 5 euro. Infine la clausola beffa che permetteva di continuare a incassare i contributi annuali per cinque anni, anche se la legislatura finiva al secondo.
C’è voluto un doppio scandalo, quello che ha investito prima il tesoriere della Margherita Luigi Lusi (sotto processo per essersi messo in ta25 milioni) e poi quello sulla gestione allegra dei fondi della Lega Nord che è costato la cadrega a Umberto Bossi per costringere i partiti a tagliare i rimborsi elettorali. E così il montepremi è sceso da 469 a 159 milioni.
Basterà , pensavano Bersani, Casini e Alfano. E invece no, perché altre cifre scandalose sono venute a galla, da Roma a Milano, rafforzando negli elettori la convinzione che nell’Italia degli esodati e dei nuovi poveri c’è ancora una casta che spende per i suoi vizi il denaro dei contribuenti.
Risposta canonica dei partiti: in tutta l’Europa si fa così. Certo, ma gli inglesi, per esempio, spendono molto meno (dodici volte di meno, per l’esattezza) e quei 12 milioni di euro li danno solo ai partiti d’opposizione. E in Germania, la nazione che si avvicina di più alle nostre cifre, i controlli sono rigorosissimi e chi viene scoperto a imbrogliare si fa cinque anni di carcere (se poi è il leader del partito ha chiuso con la politica, anche se si chiama Helmut Kohl).
Del resto, gli stessi rendiconti dei partiti hanno rivelato l’ipocrisia della dizione “rimborsi elettorali”, perché nel 2008 le spese reali per le campagne politiche sono risultate pari a un terzo (Pdl), un decimo (Pd) o addirittura un dodicesimo (Lega) del contributo ricevuto dallo Stato. E con gli altri soldi, cosa ci fanno? Il partito meglio organizzato, il Pd, nel 2011 ha speso quasi 13 milioni per il personale – 180 dipendenti, secondo un dossier preparato da Matteo Renzi – 25 milioni per “servizi” e “attività  di propaganda”, 3,7 milioni per “altri costi operativi” (viaggi, alberghi, ristoranti eccetera) e 14 milioni per “contributi ad associazioni” (le strutture periferiche). Tutte spese che vengono pagate solo con i “rimborsi elettorali” (58 milioni) più 5 milioni e mezzo di “altre contribuzioni”, che vengono dai 1500 euro che ogni parlamentare versa ogni mese al partito. Punto e basta, perché il ricavato del tesseramento rimane in periferia.
Perciò, quando Grillo lo invita a fare come lui, rinunciando al finanziamento pubblico, Bersani sa che accettare quella sfida sarebbe, per il suo partito, una vera rivoluzione. Una rivoluzione francescana.
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La legge fu introdotta nel 1974 in seguito allo scandalo dei petroli che aveva coinvolto le forze politiche del centrosinistra
Dopo l’abrogazione del 1993, sono stati inventati i “rimborsi” una formula ipocrita che nasconde molti più fondi di prima


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