Giovannini: si sottovaluta la crisi peggiore dagli anni 30

by Sergio Segio | 8 Marzo 2013 8:38

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Non è una convergenza nell’allarmismo. È che il Paese non può continuare a vivere in uno stato di negazione, come invece fa da anni. Per uscire dai guai, che sono seri, si tratta innanzitutto di riconoscerli. Giovannini e Bini Smaghi parlavano, ieri pomeriggio, alla riunione dell’Aggiornamento permanente della European House Ambrosetti, alla Villa d’Este di Cernobbio.
L’incontro ha sottolineato quanto l’Italia e gran parte dell’Europa non siano in grado di trovare un ruolo nella nuova economia mondiale, in trasformazione come mai tra baricentro dell’economia che non è più nell’Atlantico, governi in difficoltà  a dare risposte ai cambiamenti, banche centrali spinte sempre più in prima linea per risolvere qualsiasi genere di problema e di crisi. Giovannini ha passato in rassegna una serie di indicatori della situazione italiana. Praticamente tutti negativi, a dare il segno dell’emergenza. Uno per tutti: il Pil, tornato come aggregato ai livelli del 2001 ma sceso al 1993 in termini pro capite. Italiani arretrati a vent’anni fa, per quel che riguarda la ricchezza prodotta da ciascuno. E ha sottolineato una cosa curiosa: nel momento peggiore della recessione, tra il 2009 e il 2010, l’Italia è stata l’unica nazione avanzata ad aumentare la propensione al consumo: segno che la percezione della crisi non c’era, sostituita dall’illusione, sostenuta dai partiti, che si trattasse di un momento di passaggio: quando si è capito che non era così, a metà  2011, la reazione contraria, rapida e profonda. Per dire quanto sia importante riconoscere i problemi. E quanto conti non illudersi che abbiano soluzioni miracolose.
L’idea che i nostri guai li possa risolvere qualche altra entità  non è più sostenibile. Il sentiero da percorrere per rispettare gli impegni con i partner europei è stretto. E anche la Bce di Mario Draghi può aiutare fino a un certo punto. Può calmare i mercati, come ha fatto. Ma poco di più. «La crisi italiana non si risolve con la politica monetaria», ha sostenuto Bini Smaghi. Le banche centrali tengono i tassi bassi, acquistano titoli sui mercati, fanno annunci nella speranza di fare ripartire un po’ d’inflazione: «Il problema è che dopo parecchi anni di questa politica i risultati non si vedono». Il mondo è pieno di liquidità  ma per i Paesi avanzati non si traduce in crescita sufficiente e in occupazione.
Ciò nonostante, i governi occidentali — che sembrano non disporre di politiche economiche funzionanti — hanno «spostato la pressione sulla politica monetaria», secondo Bini Smaghi. Il ruolo che stanno assumendo le banche centrali — Fed Usa, Banca del Giappone, Banca d’Inghilterra e la stessa Bce — è in effetti significativo. «Il ruolo delle banche centrali — ha commentato ieri la governatrice della South African Reserve Bank Gill Marcus — è cambiato significativamente. Ora ci si aspetta che risolvano tutto loro: la crescita, la disoccupazione, i rapporti tra le valute», anche a costo di metterne in discussione l’indipendenza. Segno di quanto la politica si senta impotente. «La cosa più importante per l’economia in questo secolo è già  oggi la crescita dei Paesi emergenti — ha constatato Jim O’Neill, l’economista di Goldman Sachs che coniò l’acronimo Bric — Ogni 12 settimane e mezzo, la Cina crea una nuova Grecia in termini di Pil». C’è molto di cui prendere atto.

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