Il bus che divide Israele

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QALQILYA. Non si era ancora levato il sole, ieri, quando si sono accesi gli stop del bus bianco e verde che si è fermato sulla piazzola a lato dell’incrocio, appena superato il check-point di Eyal, uno dei punti di uscita dalla Cisgiordania per i palestinesi che possono andare a lavorare in Israele. Intirizziti dal freddo secco del mattino, qualche centinaio di pendolari con il fagotto del pranzo sotto il braccio e il permesso di lavoro in mano, aspettano mestamente sotto una tettoia. C’è un borbottio, quasi sommesso, poi comunque si forma una coda per salire sul bus, tutti vengono perquisiti dalla sicurezza.
Una pattuglia dell’esercito israeliano a distanza controlla che non ci siano tafferugli alla nuova fermata del pullman numero 211, il “bus della vergogna”: così i gruppi per la difesa dei diritti umani hanno ribattezzato questa nuova linea della compagnia “Afikim”, destinata solo ai pendolari palestinesi. Una decisione, quella del ministro dei Trasporti Yisrael Katz, che ha suscitato lo sdegno di molti israeliani – per le analogie con l’America segregazionista degli Anni Cinquanta, con il Sudafrica prima di Mandela – e la rabbia del governo dell’Anp che denuncia “la nuova apartheid”. «È una politica di segregazione razziale adottata da tutti i governi israeliani», accusa il viceministro palestinese per il Lavoro, Assef Said. La tensione sale pericolosamente e l’altro ieri notte due bus della compagnia destinati a queste linee speciali sono stati bruciati nel posteggio di Kfar Qassem. Il servizio, che per ora ha solo due linee, è stato lanciato lunedì scorso dopo le proteste mosse dai coloni israeliani del vicino insediamento di Ariel – anche se da quel che si vede dalla Highway numero 5, Ariel sembra più una città  con i suoi quasi 50 mila “settlers” residenti – che si sentivano minacciati dalla presenza degli arabi alla fermata o a bordo dei bus usati anche da loro.
FINO a domenica scorsa i lavoratori palestinesi, dopo aver passato il checkpoint di Eyal, raggiungevano a piedi una fermata dei mezzi pubblici poco distante dall’ingresso di Ariel per poi prendere insieme agli israeliani un mezzo diretto a Tel Aviv e alla piana di Sharon, dove centinaia di piccole aziende impiegano gran parte dei 29 mila palestinesi che hanno il permesso di lavoro in Israele.
Un tempo gli operai arrivavano a decine di migliaia da Gaza e dalla Cisgiordania, poi con l’Intifada nel 2000 e l’ondata di attentatori suicidi palestinesi, il numero di lavoratori a cui è stato concesso di entrare in Israele è precipitato, così come gli stipendi che gli vengono pagati. E oggi con una disoccupazione media del 30 per cento e un salario che in Cisgiordania è la metà  di quello medio degli israeliani, un permesso di lavoro in Israele è comunque una manna: intere famiglie vivono solo di questo reddito che è poco meno di mille dollari al mese. «Questi autobus sono una vergogna, è solo l’ultima umiliazione che ci infliggono», dice pacato Gamal, ingegnere meccanico presso una ditta israeliana di Haifa. «Ma chi ha famiglia come me non può fare altrimenti e deve subire. Ma fino a quando?».
Ibrahim, che viene da Bidya, racconta: «Hanno distribuito dei volantini per il mio villaggio annunciando questa novità ; ci stanno rendendo la vita impossibile,
io vivo lontano da questo check-point e per arrivare fin qui c’è un’ora e mezzo di macchina da fare. Oggi mi sono alzato alle quattro per essere sicuro di poter prendere questo maledetto autobus; se lo perdo, perdo anche la giornata al lavoro».
Il ministero dei Trasporti israeliano ha già  respinto le accuse di razzismo mosse dall’organizzazione israeliana per i diritti umani B’tselem, sottolineando la sua intenzione di rafforzare la sicurezza dei passeggeri (ebrei) e di voler contrastare i trasporti illegali, cioè i furgoncini israeliani abusivi che trasportano i lavoratori palestinesi fino a Tel
Aviv per 40 shekel: una rapina per chi ne guadagna meno di 200 al giorno. Ma il direttore di B’tselem, Jessica Montell, ribatte che la creazione di autobus separati «è solo razzismo, tale piano non può essere giustificato con le pretese esigenze di sicurezza o sovraffollamento » .
Il presidente del partito di sinistra Meretz ha scritto al ministro dei Trasporti per chiedere di cancellare le “linee dell’apartheid”: «La segregazione sugli autobus dimostra che l’occupazione e la democrazia non possono coesistere: era una consuetudine in passato dei regimi razzisti in tutto il mondo ed è inaccettabile in un Paese democratico » .
Anche se per legge a un palestinese con il permesso di ingresso in Israele non può essere impedito di viaggiare su autobus di linea, da tempo la polizia si sta preparando per far rispettare la segregazione. Di conseguenza, non è difficile che a un palestinese che raggiunge un posto di blocco su un autobus di linea israeliano verrà  chiesto di scendere e aspettare l’autobus speciale, quello della “vergogna”.
Racconta Fawzi, che fa l’ebanista vicino Lod, che giovedì della settimana scorsa, un autobus carico di passeggeri è stato fermato al posto di blocco nei pressi dell’incrocio di Shomron Shaar. Al controllo delle carte di identità , è saltato fuori che tutti i passeggeri erano palestinesi: gli era stato ordinato di lasciare il terminale e raggiungere a piedi l’altro check-point, quello di Azoun-Othma, a quasi 3 chilometri di distanza. A nulla sono servite le proteste dei passeggeri, secondo la polizia gli agenti hanno semplicemente eseguito le istruzioni ministero dei Trasporti.
Anche se molti sono gli indignati – Haaretz ieri titolava in prima pagina “Le nuove strade del razzismo” – questa è solo la punta di un iceberg. Nella Cisgiordania occupata e a Gerusalemme Est la segregazione tra i passeggeri israeliani e palestinesi su mezzi di trasporto pubblico non è certo nuova. A Gerusalemme, dalla stazione centrale partono le linee che collegano la Città  Santa a Tel Aviv, Haifa, il Mar Morto e a diversi insediamenti israeliani in tutta la Cisgiordania. Questi autobus – riconoscibili dal colore verde brillante – non devono fermarsi ai posti di blocco, i passeggeri sono solo cittadini israeliani, soldati e coloni. Alcuni di questi autobus, quelli diretti agli insediamenti che sono fortemente sovvenzionati dal governo israeliano, spesso percorrono la città  mezzi vuoti. È facile per questi pullman avere un orario prestabilito di arrivi e partenze; la stazione centrale è confortevole, c’è l’aria condizionata e anche un McDonald’s kosher.
Per viaggiare da Gerusalemme in una città  palestinese in Cisgiordania, gli scassati mini-bus bianchi partono dalla stazione di Nablus Road: è all’aperto, caotica e trasandata, quasi nascosta dietro alla Città  vecchia. Questi bus collegano Gerusalemme a Ramallah, Nablus, Betlemme e molte altre piccole città  e villaggi palestinesi. Devono perciò passare attraverso diversi posti di blocco, dove spesso tutti i passeggeri sono costretti a scendere mentre i soldati israeliani verificano la loro identità  per assicurarsi che essi non siano dove non dovrebbero essere. Nessuna di queste linee è sovvenzionata dal governo israeliano: per risparmiare partono dal capolinea solo quando i mezzi sono pieni, spesso troppo pieni, con i passeggeri in piedi tra i sedili. Impossibile per questi minibus avere un orario regolare, e per i passeggeri sapere quando si parte e quando si arriva. “Inshallah”, dicono i palestinesi, ma non sorridono e non sono contenti.


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