In Europa si allarga il solco Nord-Sud
Il focolaio si è spostato ancora più a sud. Cresce nel cuore orientale del mare Mediterraneo e rischia di essere la nuova, minuscola frontiera di una crisi dell’Europa e della sua moneta unica. L’incognita si chiama Cipro, l’ultimo degli Stati mediterranei a chiedere aiuto finanziario alle istituzioni di Bruxelles; e quello destinato a diventare il pomo della discordia fra la filiera delle nazioni protestanti che si percepiscono virtuose in termini di spesa pubblica e di debito; e quelle del Sud Europa, viste come spendaccione e indifendibili.
Negli ultimi anni, si è accentuata l’impressione che si tratti di nazioni incapaci di mettere a posto i propri conti pubblici; dominate da forze populiste che rifletterebbero fedelmente una cultura del debito più forte di qualunque minaccia di sanzioni continentali. E dunque da aiutare col contagocce e con dosi crescenti di diffidenza: soprattutto se trasferire aiuti nelle casse di quegli Stati significa chiedere soldi alle proprie opinioni pubbliche, spaventate dalla crisi e dal timore del contagio finanziario dei partner mediterranei; e portate a chiedersi se abbia ancora senso una solidarietà che viene vista a senso unico. I fondi che il governo di Nicosia chiede sono irrisori, rispetto al quadro generale: 17,5 miliardi di euro. Ma è il quinto Paese a farlo; e la sua richiesta incrocia pericolosamente la campagna elettorale tedesca e le incognite europee delle quali l’Italia è tornata a essere una componente.
In Germania, i socialdemocratici sembrano decisi a interpretare il ruolo di guardiani degli interessi della nazione nei confronti di una cancelliera Angela Merkel, additata insieme come troppo rigorista sulla scia del Ppe, e per paradosso troppo cedevole verso gli alleati debitori; e vogliono sfruttare il caso cipriota per prendere voti, dopo la vittoria del «candidato Merkel», il conservatore Nikos Anastasiades. Il risultato temuto è quello di un rinvio delle decisioni a dopo l’estate; con la prospettiva, però, che da Cipro si possa nel frattempo rinfocolare la crisi della vicina Grecia; e riportare l’Europa sull’orlo del contagio appena arginato. Il dopo elezioni italiano si inserisce come variabile decisiva in questo scontro sordo fra due aree geografiche spinte su una rotta di collisione dalla crisi economica continentale; e tentate di assegnare alle trattative sui fondi salva Stati, alle politiche di austerità e agli impegni da prendere con la Banca centrale europea sottintesi etici più che economici. Basta pensare ad una Finlandia costretta dai tempi delle dure «riparazioni» dovute nel dopoguerra all’Unione Sovietica, ad una disciplina di bilancio rigorosa.
Il limbo nel quale si trova l’Italia non è soltanto il riflesso di una situazione parlamentare oggettivamente difficile, dopo risultati che hanno restituito il Parlamento diviso in quattro tronconi apparentemente senza comunicazione né possibilità di allearsi. Segnala anche la necessità di tenere insieme la volontà degli elettori e la strategia «tiranna» delle istituzioni europee. Il fatto che negli ultimi due e più anni nazioni come Francia, Spagna, Olanda, Grecia, Italia e la stessa Cipro, per citarne alcune, abbiano in qualche modo respinto o comunque indebolito le politiche decise nei vertici dei capi di governo continentali, non è riuscito per questo a modificarne la continuità . È come se Bruxelles fosse una sorta di contrappeso, o di contraddizione, rispetto a democrazie le cui opinioni pubbliche tendono a rifiutare e a distanziarsi da alcune scelte obbligate; anche perché la maggior parte delle forze politiche assecondano gli umori più antieuropei e ostili all’austerità .
Il ritorno alla realtà , tuttavia, si dimostra inevitabile. E ripropone i problemi di prima, se possibile aggravati dalla mancanza di consensi. Per quanto fastidiosa, l’idea di un «commissariamento» delle agende economiche si riaffaccia come epilogo tanto difficile da accettare quanto rischioso da escludere, se non si arriva ad un compromesso. Trovare una sintesi fra democrazia e deriva antieuropea si rivelerà necessario per evitare l’aggressione della speculazione finanziaria. I timori suscitati dalle ultime sparate di Beppe Grillo sull’eventualità di un’uscita dell’Italia dal sistema della moneta unica europea, sono un esempio da non sottovalutare. Soprattutto perché fanno pensare che certi slogan non fossero solo argomenti da campagna elettorale, ma parole d’ordine meditate, sebbene irresponsabili e impraticabili.
Il comico a capo del Movimento 5 Stelle le ha consegnate prima al settimanale tedesco Focus, e poi rilanciate parlando di referendum online sull’euro. E questo avrà certamente alimentato ulteriormente le diffidenze della Germania media nei confronti dell’Italia post elettorale; e fatto ritenere che le misure rigorose e dolorose prese nei quattordici mesi di governo dei tecnici, guidato da Mario Monti, siano archiviate per sempre. La sua lista ad appena il 10 per cento dei voti alle elezioni del 24 e 25 febbraio scorsi viene considerata «la sfida più seria alla legittimità democratica dell’eurozona», ha osservato Paul Grauwe, docente alla London School of Economics di Londra.
Anche perché è stata sopravanzata da due coalizioni, quella di centrodestra di Silvio Berlusconi e del leghista Roberto Maroni, e quella di Grillo, su posizioni critiche o apertamente ostili nei confronti della strategia definita «tedesca» in modo un po’ troppo sbrigativo: se non altro perché ha sostenitori in molti Stati del Nord Europa, e simboleggia il primato continentale di quell’area rispetto ad un Mediterraneo guardato con sufficienza come periferia. Sotto questo aspetto, l’allargamento europeo si è tradotto in una maggiore influenza delle nazioni nordorientali. L’asse della guerra fredda che vedeva alleati la Germania di Helmut Kohl, la Francia e l’Italia di Giulio Andreotti, è scomparso da molto tempo. In campagna elettorale lo stesso centrosinistra ha additato la crescita come obiettivo alternativo da perseguire rispetto ai provvedimenti presi da Monti e considerati la causa della recessione. In realtà , una strategia economica alternativa all’attuale rimane un punto interrogativo: se non altro per mancanza di concordia e di margini di spesa.
E se esiste un pregiudizio culturale nel quale si mescolano ostilità ai Paesi mediterranei e alla loro cultura cattolica «perdonista» e lassista in materia di finanza pubblica, sarà stato puntellato e rafforzato da quanto sta succedendo in Italia. È difficile dare torto a quanti ritengono che questa volta il problema rischia di imporsi in termini più drammatici rispetto alla crisi di due anni fa. Non più un «cordone sanitario» di aiuti alla Grecia di turno, ma una riflessione più conclusiva sull’opportunità o meno di cambiare radicalmente il sistema dell’eurozona; oppure di abbandonarlo. L’incognita più preoccupante è che, per come sono andate le cose, l’Italia appena emersa dalle urne sta già cominciando un’altra campagna elettorale: che si voti fra pochi mesi o fra un anno o qualcosa di più. Prevedibilmente questo accentuerà l’estremismo di alcuni temi populisti, e non il senso di responsabilità e l’adesione agli imperativi europei. E approfondirà un solco che, inutile illudersi, non porterebbe vantaggi. A Paesi come l’Italia, promette di regalare soprattutto guai e impoverimento.
Massimo Franco
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