La «Banca» dei Brics è il test di prova per la Cina di Xi Jinping
Lo dovrà fare con i suoi prodotti e la sua proposta economica e culturale interna e dovrà farlo dal punto di vista delle relazioni internazionali. Il «sogno cinese» promosso da Xi Jinping in patria è stato infatti letto con evidenti connotati nazionali, ma ha finito per scatenare riflessioni soprattutto sul peso qualitativo della Cina nel mondo. Tradotto, i cinesi si chiedono come sia possibile che ormai prossimi al futuro sorpasso economico verso gli States, la Cina non sia ancora riuscita a creare un fronte politico internazionale importante.
Viene così letta in questa direzione la prima missione estera del presidente cinese e la spinta sul fronte dei Brics. La Cina ha investito molto, in Africa ad esempio, anche se a questo proposito va ricordato che nonostante l’importanza che viene affidata al «safari cinese», Francia e Stati Uniti sono ancora i più grandi investitori nel continente africano, mentre la Malesia ha appena investito due miliardi di dollari in più di Pechino. La questione è che non bastano i soldi per trasformare una potenza economica in un’egemonia globale. Serve la politica e la capacità di esportare un concetto di appartenenza internazionale che naturalmente deve essere guidato da Pechino. L’idea quindi alla base della creazione di una Banca internazionale dei Brics, in chiaro antagonismo rispetto a Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale, è un test di prova per la Cina. I Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) in comune hanno solo ed esclusivamente lo sviluppo economico. Tra loro dialogano, politicamente ed economicamente, poco. Tutti i paesi dei Brics hanno scambi commerciali limitati tra loro, preferendo ancora le tradizionali potenze economiche (Stati Uniti, Europa e Giappone). Solo il 2,5% degli investimenti di ciascun paese dei Brics rimane nell’ambito dei paesi emergenti, il 40% finisce in altre economie. Per molti osservatori, se nell’incontro del 2014 in Brasile non verrà ratificata e ufficializzata la Banca dei Brics, si potrebbe già cominciare a parlare di fine dell’esperienza. Rimangono infatti molti nodi, differenze e sospetti tra i paesi delle economie emergenti che la Cina cercherà di attenuare, pur provando a mantenerne la guida. Per ora si parla di un investimento per ogni nazione di 10 miliardi di dollari focalizzato a finanziare progetti nei paesi in via di sviluppo (anche per questo 15 paesi africani sono stati ammessi all’incontro come osservatori). Sul destino dei Brics e del progetto «banca comune» si giocano i futuri assetti geopolitici: «Ironia della sorte, potrebbero essere le fratture dentro i paesi Brics a suggerire più accuratamente il futuro dell’ordine mondiale: le tensioni tra la Cina e il Brasile sul commercio, con l’India in materia di sicurezza e con la Russia evidenziano le difficoltà che Pechino avrà nell’avanzare pretese di leadership globale», ha dichiarato Daniel Twining, del German Marshall Fund.
I Brics hanno inoltre una chiara funzione anti-Usa. Washington benché in decadenza verso il colosso cinese ha saputo cogliere ottime possibilità nell’area asiatica che hanno finito per costringere la Cina ad occuparsi dei propri vicini: la crescita di Pechino ha finito per creare molti nemici, preoccupati dell’avanzamento militare e dell’atteggiamento spesso arrogante che la Cina ha riguardo mire territoriali asiatiche. Anche per questo un altro fronte che si è aperto riguarda la creazione di un’area di libero scambio tra Cina, Corea del Sud e Giappone. Chi pare abbia più da guadagnarci sono i coreani, mentre i giapponesi sembrano disposti ad accettare i dialoghi, almeno all’inizio, solo per dimostrare buona fede nei confronti degli altri due paesi, provando a smarcarsi, seppure debolmente, dall’energico abbraccio di Washington. A Seul, assicurano i coreani, sono in corso «incontri sulle riunioni dei ministeri economici». Il primo round – si dice – non «riguarderà nessuna trattativa concreta».
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