L’invito di Napolitano: c’è bisogno di unità 

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ROMA — Gli fanno notare quanto sia «complicata» la situazione politica, nella speranza di ricavare qualche indizio sui suoi umori. E lui replica con un sorriso tirato e con poche parole che sintetizzano il discorso di venerdì, quando ha affidato il preincarico a Pier Luigi Bersani: «Senza dubbio in questo momento abbiamo bisogno di unità … Abbiamo bisogno di unità , ma anche di pensare adesso all’interesse generale del Paese e di dare continuità  alle nostre istituzioni democratiche».
Sembra un estremo memorandum al segretario del partito democratico — ma pure ai leader di tutte le altre forze politiche — la laconicissima risposta del presidente della Repubblica, pronunciata mentre la partita per dare un governo all’Italia è in pieno svolgimento.
Giudizi sulle consultazioni avviate dal candidato premier è inutile aspettarsene. Anche una mezza frase, un pollice alzato, un sopracciglio che s’incurva potrebbero esser letti come un segnale di diffidenza e pessimismo o, al contrario, d’incoraggiamento e fiducia. Interferendo così in una sfida che resta difficilissima. Tanto più che tutto s’intreccia con la partita del Quirinale, dove tra il 15 aprile e il 15 maggio il Parlamento dovrà  insediare un nuovo inquilino. Che sarà  il dodicesimo della storia repubblicana.
Ma se in pubblico il capo dello Stato si limita a un’esortazione sugli «interessi dell’Italia» da salvaguardare (e da anteporre ai potenziali vantaggi di bottega delle singole forze politiche), è ovvio che nella tutelata privacy del Colle segua con preoccupazione gli sviluppi del negoziato in corso. Nel fine settimana, anche per effetto di contrapposte manifestazioni, polemiche e tensioni si sono esasperate.
Prigionieri della cultura del conflitto in cui siamo immersi da una ventina d’anni e tutt’ora con i bioritmi alterati da una campagna elettorale di fatto non chiusa, si cerca di forzare la mano e tatticamente condizionare, o far proprio fallire, la mission impossible di Bersani. E si minaccia il peggiore degli sfracelli, ossia l’immediato ritorno alle urne. Vale a dire il contrario di quello che Napolitano ha chiesto, sia perché la Costituzione gli preclude la possibilità  di sciogliere le Camere (siamo nel semestre bianco), sia perché questa eventualità  è considerata catastrofica da ogni suo interlocutore: imprese, sindacati, mondo della finanza, cancellerie dell’eurozona.
Il mandato ottenuto dal segretario del Pd è rigido e senza ambiguità : il Quirinale vuole «una maggioranza certa», per affidargli un incarico pieno e mandarlo alla prova delle assemblee parlamentari. Una maggioranza certificata da numeri vincolanti, non da sbandierate ma insicure promesse di qualche assenza strategica in Aula. Traducendo: non si accontenterà  di speranze. Anche perché superare lo scoglio della fiducia senza patti politici chiari ed espliciti non significa per lui disporre di una maggioranza. Saremmo di fronte al tentativo di mettere in cantiere un governo di minoranza, esposto al rischio di una falsa partenza e che lui non avallerebbe.
In assenza di una robusta cornice — ha lasciato capire il presidente — non sarebbe assicurato quel minimo di stabilità  indispensabile a tenere a battesimo un governo all’altezza dell’emergenza che attraversiamo. Bisogna insomma «evitare categoriche determinazioni di parte», per stare a quello che Napolitano aveva raccomandato subito dopo le elezioni, suggerendo di evitare ultimatum, provocazioni e rifiuti di cui ci si sarebbe potuti pentire, in sede di trattativa. Aveva in mente lo sbocco della Grande Coalizione (da lui evocata come formula ricorrente e, anzi, quasi normale, in tanti Paesi europei alle prese con risultati elettorali bloccati) che il mezzo vincitore Bersani categoricamente respinge. Rifiutando qualsiasi ipotesi di apertura al Pdl («con un governissimo poi Grillo si prende la Bastiglia») e inseguendo invece «la corresponsabilità » di un indistinto «tutti», ma in particolare facendo scouting nelle fila di un Movimento 5 Stelle che non accetterà  mai di perdere la propria «innocenza rivoluzionaria» e di associarsi ai partiti del detestato sistema.
Di più. Bersani, tra contrasti e insofferenze nel suo stesso partito, fino a ieri sera non mostrava di incoraggiare adeguatamente il doppio binario ventilato da Napolitano come possibile soluzione del rebus: 1) cercare un accordo largo sulle riforme istituzionali (e lì potrebbero maturare utili convergenze per scegliere insieme il nuovo capo dello Stato), istituendo una «convenzione» o una «commissione redigente»; 2) grazie anche al clima più svelenito che quell’intesa propizierebbe, trovare la dote di consenso necessaria per far partire l’esecutivo rivendicato dal centrosinistra, a dispetto del risicatissimo risultato ottenuto alle urne.
Da oggi le consultazioni del leader pd si faranno necessariamente più serrate. Il Quirinale non gli ha fissato una scadenza, ma si aspetta un responso entro giovedì. Anche perché il caos politico di queste ore fa riaffiorare illazioni e congetture ormai quasi insopportabili, per il capo dello Stato. Ad esempio, quelle su una sua ipotetica rielezione, respinta pure ieri («a 88 anni gli straordinari non sono ammessi»). O quelle su sue dimissioni anticipate, nel caso che la scommessa di Bersani evapori nel nulla, in modo che la nuova fase sia gestita dal successore: idea che non sembra poggiare su alcun fondamento.
In definitiva, tutti si devono rassegnare. Napolitano resterà  al suo posto fino all’ultimo giorno e, se il preincaricato uscisse sconfitto dall’esplorazione in corso, lui tenterà  di dar vita a un governo istituzionale sotto il suo segno. «Non si può esser altro che fiduciosi, bisogna essere fiduciosi per forza», ha detto scaramanticamente ieri.


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