Senato, il no di Napolitano a Monti Il premier non condivide, ma obbedisce

by Sergio Segio | 16 Marzo 2013 8:23

Loading

ROMA — «Presidente, avrei accettato la presidenza del Senato offertami da Bersani solo nell’ottica di favorire un accordo politico più largo su Palazzo Chigi… Avrei insomma aderito alla proposta del Partito democratico unicamente a condizione che potesse essere utile a sbloccare il quadro, non certo per una mia questione personale. Ma se lei dice che questa scelta sarebbe inopportuna, politicamente e soprattutto giuridicamente, e se su questo punto è irremovibile, va bene: obbedisco, anche se non condivido…».
È così che Mario Monti si è congedato ieri sera da Giorgio Napolitano, al termine di un incontro molto teso e difficile. Un colloquio chiuso senza che il premier fosse convinto dalle argomentazioni con cui il capo dello Stato ha stoppato la più forte, e comunque provvisoria, ipotesi d’intesa circolata nelle ultime ore. A Montecitorio lo schema era associato a cornici diverse, vincolate da differenti tentativi di formare una maggioranza, per i quali parecchi hanno perso tempo almanaccando su tre distinti scenari. Questi: 1) un Monti chiamato «in servizio» per Palazzo Madama dal Pd; 2) un Monti sponsorizzato contro il Pd, con l’appoggio del centrodestra; 3) un Monti con un sostegno ancora una volta «strano», trasversale.
Discussioni a vuoto, e sbagliate. Era vera e concreta soltanto la prima opzione. Che il presidente della Repubblica ha bloccato ritenendo che una simile candidatura fosse esposta a troppe controindicazioni e a pesanti dubbi giuridici, considerandola una forzatura da non azzardare. Mentre il professore, al contrario, la giudicava percorribile, nello spirito che si è sforzato di illustrare al padrone di casa, e comunque senza problemi giuridici, «perché non si può negare a un cittadino il diritto di candidarsi».
Il primo nodo — è stata l’obiezione di Napolitano — nasceva dal fatto che Monti è, sì, in carica, ma per il semplice «disbrigo degli affari correnti». È dunque alla testa di un governo già  impoverito di poteri, quasi dimidiato. Ora, se fosse eletto al più alto scranno di Palazzo Madama, dovrebbe lasciare la gestione dell’esecutivo a un vice che non esiste, perché non è mai stato nominato, e, in sua assenza, al ministro più anziano, che sarebbe poi l’attuale responsabile per i Rapporti con il Parlamento, Piero Giarda. Toccherebbe a lui, quindi, reggere Palazzo Chigi. E magari traghettarci fino alle urne, se si materializzasse lo spettro di elezioni anticipate a giugno-luglio. Questo dice l’articolo 8 della legge 400 (che regola l’ordinamento della presidenza del Consiglio), disciplinando quanto si può fare «in caso di assenza o impedimento temporaneo» del premier. E, anche se tutto è destinato a incrociarsi nell’arco di pochi giorni, il Quirinale non vuole adesso incertezze alla guida del governo, dal momento che l’Italia è più che mai sotto osservazione e l’allarme sui mercati resta alto.
Non basta. Posto che in qualche modo si superi questa prospettiva di un governo di fatto acefalo, c’è anche un precedente, negativo e assimilabile, che il Quirinale farebbe fatica a ignorare. E che forse Napolitano ha ricordato, nel faccia a faccia con Monti. Risale al primo dicembre 1982, quando il democristiano Amintore Fanfani, all’epoca presidente del Senato, si dimise per guidare un esecutivo che succedeva a quello del repubblicano Giovanni Spadolini, al quale la Dc voleva sottrarre la gestione della campagna elettorale per non offrirgli un vantaggio. L’esperienza, che avrebbe dovuto raffreddare le acque di un clima politico pure allora assai agitato, durò appena otto mesi. Trascorsi i quali, Fanfani (che era anche senatore a vita) si affannò per tornare subito alla guida di Palazzo Madama, essendo però costretto a rinunciare dalla sferzante moral suasion del capo dello Stato, Sandro Pertini.
Ecco spiegate le obiezioni del presidente della Repubblica. Alle quali Monti, fermo nelle proprie idee, ha replicato con un sospiroso «obbedisco», rassegnato a fermarsi. «Resto al mio posto, a marcire fino all’ultimo giorno», è il suo sfogo, raccolto poco dopo quel duro diniego. Uno sfogo dietro il quale il premier, dopo un anno abbondante di esperienza nei palazzi del potere, forse coglie l’ombra di qualche manovra politica, chissà , anche interna allo stesso Partito democratico. Magari lo spericolato tentativo, giocato mentre ci si rivolgeva a lui, di negoziare nel frattempo la stessa casella parlamentare con altri, ad esempio la Lega. Una casella che, nel caso il Quirinale volesse verificare la strada di un governo istituzionale (tradizionalmente affidato alla guida del presidente del Senato), avrebbe potuto rimetterlo in pista per un altro esecutivo di larghe intese e nella prospettiva di una durata non necessariamente breve.
In ogni caso, sfumata l’ipotesi Monti al Senato, la partita di come gestire le cariche istituzionali per favorire un accordo politico è in pieno svolgimento e apertissima. Dalla prossima settimana, comunque si decida per l’insediamento delle Camere, tutto passerà  nelle mani del presidente.

Post Views: 154

Source URL: https://www.dirittiglobali.it/2013/03/senato-il-no-di-napolitano-a-monti-il-premier-non-condivide-ma-obbedisce/