Addio vecchio consociativismo Prove tecniche di Grande coalizione

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Parliamo di Grosse Koalition, quando due partiti rivali decidono di lavorare insieme, su un piano di sostanziale parità , perché così accadde in Germania dopo la fine dell’era di Konrad Adenauer e Ludwig Erhard, nella seconda metà  degli anni Sessanta, e più recentemente dopo la vittoria insufficiente della Cdu-Csu di Angela Merkel contro i socialdemocratici di Gerhard Schrà¶der nelle elezioni del 2005. Vi sono stati fenomeni analoghi nei Paesi Bassi, in Belgio, in Austria e hanno dato complessivamente buoni risultati. Ma a molti sembrano sintomi di una democrazia inceppata e costretta, almeno per un certo periodo, ad abbandonare i ritmi dell’alternanza.
L’analisi mi sembra troppo pessimistica. Vi sono casi in cui l’accordo segnala una importante svolta ideologica. La prima grande coalizione tedesca nacque nel 1966, sotto la guida del cristianodemocratico Kurt Georg Kiesinger, perché Willy Brandt aveva costretto la socialdemocrazia della Repubblica federale, nel grande congresso di Bad Godesberg, a sbarazzarsi di quella dose di massimalismo che ancora scorreva nel suo sangue dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Il patto firmato da Kiesinger e Brandt nel 1966 durò tre anni e servì a dimostrare che il partito socialdemocratico era ormai una forza riformista europea, non diversa dai laburisti britannici, dai socialisti di Guy Mollet in Francia e da quelli di Pietro Nenni o Giuseppe Saragat in Italia. Non è sorprendente che Brandt, dopo una sorta di apprendistato come ministro degli Esteri a fianco di Kiesinger, abbia vinto le elezioni del 1969 e abbia potuto costituire, sotto la propria guida, una «piccola coalizione» con il partito liberaldemocratico.
In Italia la prima Grosse Koalition è il governo del Cln (Comitato di liberazione nazionale) costituito da Ferruccio Parri dopo la fine del conflitto. Ma servì soprattutto ad affrontare le grandi emergenze del primo dopoguerra, a chiudere con una amnistia il brutto capitolo della guerra civile e ad avviare la fase costituente. Finì quando la Guerra fredda esasperò le divergenze tra le sue maggiori componenti e la ricostruzione impose scelte di politica economica che non potevano essere condivise dal partito comunista. Una nuova Grosse Koalition all’italiana fu per certi aspetti il «compromesso storico» concepito da Enrico Berlinguer dopo il colpo di Stato cileno. Aldo Moro immaginò un laborioso percorso che sarebbe cominciato, dopo le elezioni del 1976, con la formazione del primo governo di solidarietà  nazionale sotto la presidenza di Giulio Andreotti. Ma Berlinguer non era Brandt e non vi fu nel Pci di quegli anni un evento simile al grande congresso socialdemocratico di Bad Godesberg. Mentre John F. Kennedy, nei suoi anni alla Casa Bianca, aveva accompagnato con simpatia la lunga marcia di Brandt verso il potere, Jimmy Carter e il suo segretario di Stato Zbigniew Brzezinski diffidavano dei comunisti italiani. E alla loro diffidenza corrispondeva quella, in Italia, di molti democristiani e di altrettanti comunisti.
Non vi fu quindi una Grosse Koalition fra la Dc e il Pci. Ma vi fu un’altra cosa che dimostra come la democrazia italiana preferisca generalmente le deviazioni alle strade dritte, le soluzioni opache a quelle limpide e trasparenti. Invece di un esplicito rapporto di collaborazione, l’Italia ebbe una lunga fase di quella che fu definita una «democrazia consociativa». I comunisti erano all’opposizione, ma presiedevano una delle Camere, lasciavano intendere che la Nato era meglio del Patto di Varsavia e offrivano una collaborazione di fatto che veniva naturalmente ripagata con favori di varia natura. Attenzione. Non tutte le democrazie consociative realizzate in Europa negli ultimi decenni hanno prodotto risultati negativi. In Svizzera si chiama «formula magica» e ha prodotto governi in cui i delegati di un partito xenofobo (l’Unione democratica di centro) siedono accanto a socialisti, popolari, liberaldemocratici; e il Paese non può lamentarsi del modo in cui forze politiche così eterogenee hanno saputo pilotarlo attraverso la grande crisi degli ultimi anni. In Italia invece la democrazia consociativa degli anni Settanta e Ottanta ha avuto effetti alquanto diversi. Quando cerchiamo di risalire alle origini del nostro colossale debito pubblico per individuarne i responsabili, dimentichiamo che le leggi di spesa nel Parlamento italiano, in quegli anni, furono frequentemente volute e approvate da un largo schieramento che ignorava la classica distinzione tra maggioranza e opposizione.
Non sarà  democrazia consociativa, fortunatamente, quella che si dovrebbe tenere a battesimo nelle prossime ore. Quando andrà  in Parlamento, il governo Letta, comunque costituito, dovrà  fare i conti con l’opposizione del Movimento 5 Stelle, di Sel e di altre formazioni minori. Sarà  dunque, finalmente, una Grosse Koalition? Ne esistono le condizioni. Il Pd, il Pdl e Scelta Civica hanno un eguale interesse ad avviare una fase costituente. Dovrebbero sapere ormai che il ritorno alle urne con questa legge elettorale rischia di precipitare il Paese in una situazione ancora più caotica di quella emersa dalle ultime elezioni. Hanno programmi economici e sociali che, una volta ripuliti degli strati di retorica con cui vengono enunciati, sono meno diversi di quanto non appaia. Li dividono ancora, purtroppo, il timore che uno di essi raccolga più degli altri i frutti della collaborazione e la voglia di rompere il matrimonio prima che questo accada. Si guardino attorno e scopriranno che le migliori grandi coalizioni europee sono quelle in cui questi timori, nell’interesse del Paese, sono stati messi a tacere.


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