Afghanistan, non basta il ritiro immediato

by Sergio Segio | 12 Aprile 2013 7:46

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In Italia, di Afghanistan si parla ormai poco e male. La mozione che i rappresentanti del M5S stanno per presentare sul ritiro anticipato dei nostri soldati ha il merito di riportare l’attenzione su un paese che rischia di sparire dai radar della comunità  internazionale. E, a quanto è dato sapere, di non perdere di vista la questione principale: cosa accadrà  dopo il 2014. La prima, vera preoccupazione degli afghani infatti è che il ritiro delle truppe equivalga al progressivo abbandono di un paese ancora molto vulnerabile. Prima di ragionare sul “che fare”, proviamo a dare alcune indicazioni.
Transizione e ritiro
Oggi in Afghanistan siamo nel bel mezzo dell’inteqal, il processo di transizione che prevede il progressivo passaggio della responsabilità  della sicurezza dalle mani internazionali a quelle locali. In alcune province, come quella centrale di Bamiyan, il processo è già  avvenuto, in altre (come in quelle meridionali di Helmand e Kandahar) è stato realizzato solo parzialmente. Il processo effettivo è lungo, e il suo compimento avverrà  soltanto alla fine del 2014, quando le truppe straniere lasceranno il paese, seguendo le indicazioni emerse dalla conferenza Nato di Chicago del 21-22 maggio 2012. Rimane l’incognita degli Stati Uniti, perché l’accordo di cooperazione di partenariato strategico firmato il 2 maggio 2012 tra Karzai e Obama non include le questioni più spinose: il numero dei soldati americani che rimarranno in Afghanistan dopo il 2014, il loro status giuridico, il numero di basi sotto eventuale controllo americano.
I numeri, i costi, i motivi
A eccezione degli Stati Uniti, per tutti gli altri paesi la transizione vuol dire ritiro completo (tranne qualche addestratore). Secondo i dati forniti da Isaf, a fine febbraio in Afghanistan c’erano 100.330 soldati stranieri. Di questi, 68.000 sono americani, 9.000 inglesi (ma 4.000 verranno via entro l’estate), 4.400 tedeschi. L’Italia è al “quarto posto”, con 3.067 soldati presenti oggi sul terreno. Considerando i circa 4.000 militari presenti alcuni mesi fa, questo vuol dire che il ritiro è già  stato avviato, senza però che il Parlamento e i cittadini ne conoscessero i dettagli. Altri paesi sono più trasparenti e decisi del nostro, e hanno già  decretato la fine della missione, come Francia e Canada (che però ancora mantengono nel paese rispettivamente 550 e 950 uomini). Il governo australiano, che oggi dispiega in Afghanistan 1.100 uomini, ha assicurato che la maggior parte delle truppe verrà  ritirata entro fine anno.
Gli stranieri stanno cedendo la responsabilità  della sicurezza all’esercito (Afghan National Army) e alla polizia afghane (Afghan National Police), oltre che a milizie parastatali dai comportamenti brutali. Secondo il Report on Progress Towards Security and Stability in Afghanistan presentato a dicembre scorso al Congresso statunitense, le forze di sicurezza afghane sono però inaffidabili, prive di adeguato addestramento ed equipaggiamento.
Le forze di sicurezza sono anche costose. Oggi sono circa 200.000, cresceranno fino a 352.000, per poi decrescere nel 2015. Per mantenerle, servirebbero dai 5 ai 7 miliardi di dollari l’anno. Alla conferenza di Chicago della Nato, Karzai è riuscito a far impegnare la comunità  internazionale, in particolare gli Stati Uniti (che copriranno metà  della spesa), per 4.1 miliardi all’anno dal 2015 al 2024 (il cosiddetto “decennio della trasformazione”).
L’economia rampante
Secondo le stime della Banca mondiale, tra il 90 e 95% del prodotto interno lordo dell’Afghanistan dipende dall’aiuto esterno. L’economia nazionale in questi anni è cresciuta a ritmi invidiabili, intorno all’8% annuo e con un aumento del Pil del 79% in pochi anni, ma rischia di collassare, con inevitabile e fisiologica diminuzione della mole di aiuti, dopo il ritiro dei soldati. I precedenti sono chiari: il ritiro della Nato dalla Bosnia nel 2004, per esempio, ha fatto scendere il volume degli aiuti da un massimo del 57% del Pil nel 1995 all’8% del 2004. Gli afghani, preoccupati per il futuro, hanno accolto come una boccata d’ossigeno l’impegno assunto dai donatori alla conferenza che si è svolta a Tokyo nel luglio scorso, quando la comunità  internazionale si è impegnata per 16 miliardi di dollari in aiuti fino al 2016-17, firmando il Tokyo mutual accountability.
Il quadro politico-istituzionale
L’attuale quadro politico-istituzionale è segnato da una profondissima inefficienza e corruzione. Un solo dato: nel corso del 2012 almeno metà  della popolazione ha dovuto pagare una mazzetta a funzionari pubblici, secondo i dati raccolti in un rapporto dell’Onu sulla corruzione presentato lo scorso dicembre (Unodc, Corruption in Afghanistan: Patterns and Trends). Tradotto in numeri, si tratta di 3.9 miliardi di dollari persi in corruzione, un quarto della cifra totale stanziata a Tokyo.
Il presidente Karzai agli occhi della popolazione non è colui a cui affidare una riforma di un sistema politico-economico predatorio e parassitario, quanto, piuttosto, uno dei suoi più smaliziati protagonisti. Nel 2014 il suo secondo mandato terminerà . Le elezioni presidenziali sono previste per il 6 aprile.
La partita dell’Italia
È in questo quadro generale che l’Italia deve giocare la sua partita. Fin qui, l’ha fatto in modo maldestro e troppo subalterno alla linea atlantica. All’Italia è mancata la capacità  di immaginare un ruolo diverso da quello assegnatogli dall’alleato americano, finendo per restare ancorata all’idea che gli unici strumenti per affermare il suo ruolo nel contesto internazionale siano quelli militari. La discrepanza tra le somme destinate in questi anni alla missione militare e alla cooperazione civile lo dimostrano: per il 2012, il governo ha stanziato circa 750 milioni per la missione militare in Afghanistan e 35 per la cooperazione (in Afghanistan e Pakistan); per il periodo che va da gennaio a settembre 2013, circa 430 milioni di euro per la missione militare e 15 milioni per la cooperazione.
Per questo, parlare di ritiro è legittimo e necessario. Ma non basta. Occorre essere più ambiziosi e coraggiosi, facendo in modo che l’Italia si assuma i suoi impegni anche dopo il ritiro. Che si faccia promotrice in Europa di un nuovo orientamento, che sostituisca l’adesione acritica all’atlantismo con un paradigma diverso, più congeniale al vecchio continente, alla sua storia passata e alle sue ambizioni future.
Anche in politica estera, anche in Afghanistan, serve un cambio di rotta: bisogna archiviare l’illusione militarista con i suoi corollari di morte e distruzione e dare corpo alla realtà  della cooperazione e dell’intervento in ambito civile. La strada è già  segnata. Occorre solo avere il coraggio e la volontà  politica di percorrerla. Basterebbe prendere alla lettera quanto promesso dal presidente del consiglio Mario Monti quando, il 26 gennaio 2012, in occasione della firma a Roma del trattato bilaterale di cooperazione di lungo periodo con l’Afghanistan, ha promesso a Karzai un’inversione di marcia: meno soldi e risorse in ambito militare, più attenzione al settore civile e del capacity-building. Fin qui il governo italiano ha operato in modo opaco. È tempo di chiedere chiarezza: rispetto al passato, sui risultati ottenuti con la missione in Afghanistan, sull’uso dei cacciabombardieri Amx senza l’avallo del Parlamento (e contro la Costituzione) e sulle vittime civili causate dagli italiani; rispetto al presente, sui tempi, i costi e le modalità  del ritiro delle truppe italiane (compresi eventuali accordi firmati con i governi dell’Asia centrale per il passaggio dei mezzi e truppe); rispetto al futuro, sugli impegni assunti a Chicago e a Tokyo. In altri termini, sulla politica che l’Italia intende mettere in campo per non abbandonare gli afghani al loro destino.

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