Austerity o svalutazione? La crisi del laboratorio Islanda
C’è un certo entusiasmo tra chi guarda l’Islanda, da un po’ di tempo. Piace ai cinesi, che la vedono come un ponte verso l’Artico. Entusiasma certi economisti, come Paul Krugman e Joseph Stiglitz che la vorrebbero sequestrare come modello anti Merkel. È studiata con interesse da alcuni funzionari di Bruxelles che la vedrebbero bene nella Ue per poterne controllare meglio la copiosa pesca di merluzzi. Gli unici a non essersi accorti di essere tanto sexy sono gli islandesi. Ieri sono andati alle urne tra l’arrabbiato e il deluso: con i cinesi collaborano ma senza passione; essere un modello per Krugman non gli risolve il problema dei mutui e non sono nemmeno convinti di esserlo, un modello; l’idea di sottoporsi alla guida della Ue o di entrare nell’euro è ormai vista male dalla maggioranza. Ampio, secondo i dati parziali diffusi nella notte, il vantaggio del Partito Progressista e del Partito dell’Indipendenza (opposizione di centrodestra antieuro, tra il 28 e il 33%) sui socialdemocratici al governo (intorno al 10%).
L’Islanda, 320 mila abitanti, è stata il primo Paese vittima della crisi finanziaria scoppiata nel 2008. Le sue tre maggiori banche, che avevano attratto enormi depositi dall’estero fino a gonfiare le attività a dieci volte il Prodotto interno lordo dell’isola, sono fallite. La cosa interessante è che lo Stato le ha lasciate fallire e ne ha fatto pagare i costi ai creditori, in gran parte esteri: si è così rifiutato (entro certi limiti) di caricare sui suoi contribuenti i costi di salvataggio, a differenza di quanto hanno poi fatto l’Irlanda e la Spagna. La cosa fece infuriare i governi dei Paesi con il maggior numero di creditori, Olanda e Gran Bretagna, ma pazienza.
La crisi bancaria fu uno shock. La discussione su come affrontarla accesa. Alla fine, la spuntò la campagna condotta da Sigmundur David Gunnlaugsson, il capo del Partito Progressista: i tribunali dell’isola decisero che il fallimento e non il salvataggio sarebbe stata la strada da prendere. Le casse dello Stato furono così parzialmente risparmiate e si decise di lasciare svalutare la corona — del 50%. Da allora, l’economia si è in parte ripresa: cresciuta del 2,9% nel 2011 e dell’1,6 nel 2012. È però anche aumentata l’inflazione, a oltre il 4%: per gli islandesi un problema perché molti hanno mutui a tasso variabile. Un successo a metà , insomma: l’economia è ripartita ma, dicono imprenditori e politici, non a sufficienza; soprattutto, l’inflazione ha aumentato lo scontento tra gli elettori.
Fatto sta che il «caso Islanda» è stato preso da Krugman e Stiglitz per alimentare la loro campagna contro l’approccio della cancelliera tedesca Angela Merkel alla crisi europea. I due economisti americani dicono in sostanza che l’Islanda ce l’ha fatta perché ha svalutato e non ha seguito ricette di austerità di bilancio: in ciò contrapponendola ai Paesi baltici che invece sono tornati alla crescita dopo una forte dose di austerità . In realtà , dopo la crisi l’Islanda è cresciuta quanto la Lettonia e la Lituania e meno dell’Estonia. Come che sia, a questa disputa — politica più che accademica — ieri gli elettori di Reykjavik non hanno badato. A loro interessano le rate dei mutui, che i partiti del centrodestra — il Progressista di Gunnlaugsson e dell’Indipendenza di Bjarni Benediktsson — hanno promesso di alleggerire attraverso un taglio del 20% dei debiti. Semmai, molti islandesi sembrano interessati a evitare che il Paese entri nell’euro, come vorrebbe la primo ministro uscente Jà³hanna Sigurà°ardà³ttir. Un sondaggio recente dice che il 58,5% è contrario e solo il 25% è a favore: nel 2009, il 38% era per l’euro e il resto indeciso. Oppure che un eventuale ingresso nella Ue permetta a Bruxelles di interferire con la politica dell’isola in fatto di Pesca, settore che produce il 40% del reddito del Paese. Oppure ancora, molti vorrebbero capire dove porterà l’accordo di libero scambio firmato pochi giorni fa con la Cina — il primo che Pechino sigla con un Paese europeo: i cinesi puntano a sviluppare giacimenti di petrolio e gas al largo delle coste islandesi e soprattutto vorrebbero una base nella rotta navale dell’Artico che a causa dei cambiamenti climatici si sta aprendo e taglia i tempi di trasporto per numerose vie commerciali. Più che un caso di scuola tra economisti, dunque, l’Islanda è un caso interessante di politica e geopolitica. Su questo ha votato ieri.
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