Beppe fa il mediatore Ma chi vota in dissenso non sarà  più 5 Stelle

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ROMA — Nel «pranzo di matrimonio», come lo chiama ironicamente un senatore, tocca a Giulia Sarti, giovane deputata bolognese, la parte di chi esce dal coro degli applausi, senza rientrare affatto nella categoria «dissidente». È lei a riportare in superficie uno dei nervi scoperti del Movimento: la decisione di non fornire i nomi dei candidati premier al Quirinale. Decisione che, insieme ad altri 30, non ha condiviso. Ma l’altra questione vitale è la stessa che tormenta da mesi il Movimento. Tollerare o meno il dissenso? Lasciare libero sfogo alle posizioni divergenti o intervenire? Purgare, espellere o perdonare? Nell’attesa di assumere decisioni univoche, il clima che si respira non è esattamente ispirato al libero scambio di idee. E qualcuna delle assenze di ieri è dovuta probabilmente a un’irritazione rispetto alle dinamiche interne dei gruppi. Mancavano Alessandra Bencini e Tommaso Currò, che aveva definito «surreale» la visita a Grillo. Ma anche una trentina e più di altri: alcuni assenti giustificati, altri meno. Come i due parlamentari — Mirella Liuzzi e Vito Petrocelli — che ieri hanno preferito restare a lavorare in Transatlantico.
Il siparietto che si svolge nella sala dell’agriturismo di Fiumicino dà  un primo elemento di valutazione. Perché dopo l’intervento della Sarti, Grillo ha dedicato qualche parola alla questione «lista di nomi»: «Tocca a voi valutare se e quando fare dei nomi per il premier». In quel momento si è levata una voce dalla sala: «Ma l’abbiamo già  votato!». Voto che in effetti c’è stato e ha sancito la posizione attendista del Movimento. Grillo, poi, ha spiegato: «Va bene, allora se avete votato, basta così. Mi dispiace se qualcuno non è d’accordo. Chiunque abbia ideali diversi, si deve adeguare alla linea». Segue applauso caloroso, che suona come una censura alla Sarti.
Ma Grillo è sembrato prendere una posizione moderata, quasi mediana tra falchi e colombe: «Nel Movimento c’è libertà  di pensiero». Affermazione che può apparire scontata (ma non lo è). Subito seguita da una postilla: «Se qualcuno decidesse di passare dalle parole ai fatti, cioè al voto in Parlamento, allora il problema non sarebbe l’espulsione, perché scatterebbe subito il ritiro dell’autorizzazione a usare il simbolo a 5 Stelle». Tradotto: il parlamentare sarebbe fuori dal gruppo, senza dover avviare la complicata operazione di voto online, prevista dal codice a 5 Stelle.
Insomma, non c’è bisogno del popolo del web, per decidere sul dissenso. Roberta Lombardi lo dice con parole diverse: «Chi deciderà  di votare il Pd, vorrà  dire che non sente più gli impegni del Movimento e sarà  lui stesso a decidere di uscire. Non ci saranno espulsioni, nessuno sarà  cacciato». Affermazione, che sembra contrastare con il Codice di comportamento, che le espulsioni le prevede eccome. E che sembra contrastare con il recall, il meccanismo di sfiducia dell’eletto che Vito Crimi vorrebbe inserire nella nuova legge elettorale. Intanto, nel mirino ci finisce anche Paolo Becchi. Il costituzionalista di riferimento di 5 Stelle, dopo le molte critiche, fa marcia indietro sul suo tweet contro i «Giuda». E spiega: «Se ho ecceduto nei toni chiedo scusa. Ora ho bisogno di pensare».
Nel dibattito interviene il deputato Walter Rizzetto (che è d’accordo con la Sarti sui nomi, ma contrario a votare governi con il Pd): «Epurare o minacciare di espellere qualcuno solo perché pensa di fare dei nomi, mi sembra davvero controproducente per noi». E Alessio Tacconi: «Così ci facciamo del male».


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