Come chiudere un conflitto permanente
Vuole dare vita a un governo che sia di fatto di pacificazione nazionale.
Anzi, punta a qualcosa di più: al riconoscimento della nuova realtà da parte di avversari che si sono combattuti aspramente, troppo, fino a poche settimane fa. Eppure, i partiti non potranno che dirgli di sì, nonostante i malumori e i lividi ancora da smaltire. Il Pd cerca di limitare e circoscrivere nel modo più indolore e asettico la svolta, con un occhio all’elettorato. Il Pdl, invece, vuole sottolineare e perfino esaltare la novità , forse con la speranza segreta di una spaccatura della sinistra.
Il risultato è quello di scaricare sul Quirinale il compito di azzerare le ultime resistenze; o almeno di abbassarle fino a una soglia che renda accettabile la sua mediazione. D’altronde, passare da una lettura mitica del risultato elettorale del 24 e 25 febbraio alla realtà prosaica dei numeri esige un cambio di prospettiva che il Pd fatica a darsi: anche perché deve archiviare una sconfitta politica recente e una mentalità radicatasi in vent’anni; sebbene sia comune anche a larghi settori di un centrodestra educato all’anticomunismo. Ma il via libera al «governo del presidente» è obbligato. Molti dei dubbi su un’intesa con Berlusconi sono cadute una a una durante la direzione del Pd di ieri pomeriggio.
Nella tarda mattinata di oggi, il capo dello Stato conferirà l’incarico. E chiederà di fare presto. L’ipotesi è quella di un esecutivo appoggiato da Pd, Pdl e Scelta civica, il partito del premier uscente, Mario Monti. In apparenza, rifletterà lo schema di unità nazionale del governo dei tecnici. In realtà , dopo la strigliata di Napolitano ai partiti lunedì scorso in Parlamento, il profilo politico sarà più netto ed esplicito. La collaborazione, se non la si vuole chiamare alleanza, fra un Pd che si lecca le ferite delle lacerazioni sul Quirinale, e un Pdl determinato a partecipare a una coalizione forte, non può essere elusa. È l’unico modo per superare quella «sorta di orrore» per il dialogo, che ha paralizzato i rapporti politici.
Il fuoco di sbarramento di esponenti della sinistra del Pd come Rosy Bindi contro la prospettiva che a Palazzo Chigi vada il vicesegretario Enrico Letta può sembrare paradossale; ma diventa la metafora di una visione dura a morire. È l’ostilità a qualunque candidato che si proponga un dialogo col Pdl in nome dell’emergenza; e che possa mettere in forse quella che è stata a lungo la vera identità del centrosinistra. Sono le stesse perplessità che una parte del Pd sussurra nei confronti dell’ex premier Giuliano Amato, il candidato sul quale Napolitano punta anche per rassicurare le cancellerie occidentali.
Alla fine deciderà il presidente della Repubblica. Sarà un caso, ma mentre ieri il leader Beppe Grillo, fuori dal Parlamento, continuava a gridare al golpe e a rivolgersi al capo dello Stato con parole villane, gli esponenti parlamentari del Movimento 5 Stelle sono andati alle consultazioni al Quirinale. E hanno usato termini insolitamente diplomatici nei confronti di Napolitano. Chissà che alla fine la sua tenacia non pieghi anche i grillini: sebbene si definiscano in modo arbitrario «l’unica opposizione».
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LA FAVOLA INSOSTENIBILE
Non era mai capitato che un comitato promotore guidato nientemeno da Gianni Letta e formato tra gli altri da Cesare Geronzi, Giovanni Malagò, Emma Marcegaglia, John Elkann, Luca Cordero di Montezemolo, Diego Della Valle e Azzurra Caltagirone, ricevesse un no così sonoro. Il presidente Monti ha negato il consenso all’avventura delle Olimpiadi romane del 2020.