Cosa esce dai nostri rubinetti

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RUBIERA (Reggio Emilia). Quando arriva il caldo, via Togliatti diventa la nuova piazza del paese. C’è il tempo per due chiacchiere, mentre aspetti il turno davanti alla casetta dell’ «Acqua pubblica». Puoi riempire, senza spesa, sei bottiglie da un litro e mezzo e puoi scegliere fra acqua “naturale”, “refrigerata”, “frizzante”. Non è una cosa da poco portare a casa acqua buona e gratuita, in un’Italia dove purtroppo vince l’acqua avvelenata. L’ultimo Rapporto nazionale sui pesticidi nelle acque dell’Ispra racconta infatti che, con 3.621 punti di campionamento, sono stati trovati residui di pesticidi nel 55,1% delle acque superficiali, e nel 34,4% le concentrazioni sono superiori ai limiti delle acque potabili. Quelle sotterranee risultano inquinate in misura del 28,2%, con un 12,3% di casi sopra i limiti. Fra Reggio Emilia e Piacenza le casette dell’“Acqua pubblica” sono 52 e l’Iren Emilia (la società  che gestisce acquedotti e gas) si vanta di avere già  fatto risparmiare alle famiglie 480.000 euro all’anno.
Anche questa terra dove puoi andare in bicicletta a prendere l’acqua fresca e frizzante — evitando il bar dove ti chiedono 1 euro per mezzo litro — non è comunque il paradiso. Il rapporto Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale) dice infatti che proprio «nella pianura padano — veneta» c’è la maggiore concentrazione di aree contaminate. «Questo per le caratteristiche idrogeologiche del territorio e per il suo intenso utilizzo agricolo».
La natura ha una memoria da elefante, ricorda tutti i torti subiti. L’atrazina è stata bandita dai campi più di vent’anni fa ed è ancora fra i maggiori inquinanti. La simazina continua ad avvelenare le acque anche se fuori commercio. La terbutilazina e il suo metabolita terbutilazina — desetil sono ancora in commercio e sono state trovati nel 46% dei campioni di acqua superficiale e nel 15% di quelle sotterranee.
Ormai in tutta Italia per trovare acqua buona bisogna scavare pozzi sempre più profondi e poi bisogna disinquinare quelle che erano le chiare, fresche e dolci acque con filtri a carbone e altri marchingegni. Non sempre però la tecnica riesce a vincere. Il viaggio nelle acque avvelenate può fare tappa nel centro commerciale “il Poggio” a Montescudaio, al confine con Cecina. «Qui — racconta Yuri Trusendi, del comitato Trielina no grazie — possiamo dire davvero di essere becchi e bastonati. È stato trovato un enorme inquinamento da Tce, trielina e Pce, percloroetilene che ha avvelenato le nostre falde e le nostre terre, e noi danneggiati rischiamo di dovere pagare i danni: cinque o sei milioni di euro per 22 famiglie, soprattutto di contadini».
C’erano una lavanderia industriale, la Rapida, chiusa nel 1983 e una conceria, la Massini, fermata nel 1996, qui dove ora c’è il centro commerciale. «Nel 2004 — dice Yuri Trusendi — l’Asa, azienda servizi ambientali, per la prima volta cerca la trielina nel pozzo Ladronaia e ne trova una quantità  assurda: 40.000 microgrammi per litro, quando il limite sarebbe di 10. Scatta l’ordinanza che vieta l’uso di questo e di altri pozzi sia per l’acquedotto che per l’irrigazione. Nell’ex conceria vengono trovati 80 fusti di materiale mal stoccato con alta concentrazione di Tce e Pce e per l’azienda parte la denuncia di avvelenamento delle acque ad uso idropotabile. Ma le indagini, almeno all’inizio, non sono approfondite e l’area non viene messa sotto sequestro. Così in primo grado l’ex conceria viene assolta e noi che subiamo l’inquinamento siamo nei guai. Se non si trova il colpevole, recita l’articolo 253 del D. lgs 152/06, sono i proprietari dei terreni inquinati a dover sostenere i costi della bonifica».
Al processo la Regione Toscana si è presentata come parte civile. «I Comuni di Montescudaio e Cecina — dice Yuri Trusendi — sono invece rimasti a guardare, come del resto hanno fatto negli ultimi vent’anni. I miei genitori ed i miei fratelli continuano ad allevare vacche da carne. Ma debbono comprare il foraggio da aziende non inquinate e nelle stalle debbono portare l’acqua dell’acquedotto, filtrata da carboni attivi e pagata a caro prezzo».
Nell’ufficio del sindaco di Montescudaio, Aurelio Pellegrini, una fotografia mostra ragazzi felici che portano brocche d’acqua. «È stata scattata nel 1936, quando fu costruito l’acquedotto. Sembrava che tutto fosse risolto, allora…La vicenda della trielina è grave, ma purtroppo è solo una piccola parte del problema. In alta e bassa Val di Cecina sono tanti infatti i pozzi avvelenati da cromo e da boro, e ancora non sappiamo dove sia nato l’inquinamento. Per fortuna, sotto tutta la valle, a circa 200 metri c’è una falda di acqua buona che basterebbe per tutti i 150.000 abitanti della zona ma questo patrimonio ci viene sottratto, in misura del 60 — 70%, dalla Solvay di Rosignano, il gruppo belga che produce soda, bicarbonato, materie plastiche. Così i nostri acquedotti debbono prendere acqua in pozzi inquinati e spendere soldi per togliere cromo e boro. L’anno scorso ho sequestrato il pozzo della Steccaia, usato dalla Solvay, per dare acqua al nostro paese. Da anni proponiamo all’azienda di prendere acqua in mare, costruendo un dissalatore. Loro rispondono che i costi sarebbero troppo alti e dovrebbero lasciare a casa i loro mille lavoratori».
Ci sono anche veleni prodotti non dall’uomo ma dalla natura. Dal 1° gennaio in 40 Comuni del Lazio, soprattutto nella Tuscia, non è più possibile bere l’acqua del rubinetto (né usarla in cucina, nei forni, nei ristoranti) perché contiene troppo arsenico, contenuto nelle rocce vulcaniche intorno ai laghi laziali. «L’ultima proroga — dice Roberto Scacchi, responsabile acqua di Legambiente Lazio — è scaduta alla fine dello scorso anno. La Regione pensava assurdamente a un altro rinvio che l’Europa ha giustamente negato, perché già  nel 2001 aveva stabilito, come raccomandato dall’Organizzazione mondiale della sanità , che la presenza di arsenico non potesse essere superiore ai 10 microgrammi per litro. E così abbiamo centinaia di migliaia di persone che non possono aprire il rubinetto nemmeno per lavarsi i denti o pulire gli indumenti». Dal 14 aprile a Viterbo è in corso lo sciopero della sete (per un giorno, a staffetta) proposto dal candidato sindaco Filippo Rossi per chiedere la depurazione degli acquedotti. Nel comune di Farnese, 1.600 abitanti, l’arsenico arriva a 22 microgrammi. Sotto gli alberi di via S. Magno i bambini giocano a pallone ma se vogliono bere debbono andare a comprare la bottiglietta al bar, perché sulle fontane un cartellino annuncia «Acqua non potabile». «Da una ricerca dell’Iss — dice Valeria Cattaneo, che guida il circolo La Spinosa di Legambiente — condotta nelle aree a rischio del viterbese sulle unghie di 269 soggetti sani, sono stati trovati 200 nanogrammi di arsenico per grammo, contro gli 82 trovati nella popolazione non a rischio. Qui a Farnese l’allarme è grande, soprattutto nelle famiglie che hanno bimbi piccoli, i più esposti. Forni e ristoranti si sono comprati un depuratore, spendendo più di 1.000 euro a testa». Il Comune sta preparando un “dearsenificatore”. Doveva essere pronto il 17 ottobre 2012, con un costo di 7.148.211 euro, ma i lavori sono ancora in corso. C’è una sola fontana attiva, chiamata “Fontana leggera”, con impianto anti arsenico. Acqua naturale gratis, acqua gasata 5 centesimi a bottiglia di 1,5 litri. C’è la fila, con signore che portano la tanica per poter poi cuocere la pasta. Chiusa la
grande fontana in piazza Umberto I. Una lapide ricorda che nel 1887 «condotte le copiose acque della sorgente la Botte / furono paghi i secolari voti del popolo». C’èdasperareche,ancheperl’acqua senza troppo arsenico, l’attesa non sia secolare.


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