I padroni del mondo

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SAN FRANCISCO. Quale crisi? Per le multinazionali proprietarie dei grandi marchi globali di oggetti di consumo, la parola «recessione» è già  vecchia. Il 2012 è stato un anno positivo per l’80% di loro. Secondo lo studio Global Powers of Consumer Products 2013, pubblicato da Deloitte Touche, le vendite dei 250 più grandi produttori hanno superato i 3.118 miliardi di dollari, registrando una crescita del 7% rispetto all’anno precedente. Al vertice della “Top 10”, la classifica dei veri Padroni del Mondo, per il quinto anno consecutivo c’è la Samsung con 150 miliardi di fatturato, in crescita del 6,7% rispetto all’anno precedente.
Nell’elenco dei marchi globali al secondo posto c’è Apple, con una crescita dei ricavi del 66%, seguita da Panasonic e Nestlè. Poi arrivano Procter & Gamble, Sony, PepsiCo, Unilever, Kraft Foods e Nokia. Non importa se siano multinazionali con sede negli Stati Uniti (dove l’economia è già  in ripresa da tre anni), in Corea del Sud (uno dei primi Paesi a risollevarsi dalla recessione) oppure in Europa dove la crisi continua. Nestlé, Unilever e Nokia sono europee, ma i loro marchi hanno un raggio d’azione globale, i fatturati di questi gruppi compensano agevolmente il declino di vendite in un continente con l’accelerazione in altre parti del pianeta. A riprova che le multinazionali si sono definitivamente sganciate dal destino del paese d’origine, tra i 250 vincitori mondiali figurano sei italiani. Sono Ferrero, Luxottica, Pirelli, Barilla, Indesit e Perfetti Van Melle. Tutti “brand”, cioè marchi, di dimensione globale quindi capaci di immunizzarsi dalla crisi economica italiana. La potenza del marchio è un fenomeno così trainante, che induce a esperimenti sempre più arditi. Ikea si lancia in una joint venture con il gruppo alberghiero americano Marriott per creare una nuova catena di hotel. È un mestiere molto distante da quella che fu la vocazione originaria del gruppo svedese, cioè mobili e arredi per la casa. Ma vista la presa formidabile che il marchio Ikea ha sul consumatore, perché non invitarlo a vivere in un “mondo Ikea” anche quando viaggia, garantendogli un’esperienza di ospitalità  alberghiera che ricalca lo stile, la modernità , il design e la pulizia degli ipermercati d’arredamento?
Del resto nelle nicchie del lusso si erano già  spinti verso la creazione di hotel altri marchi fortissimi come Armani o Bulgari. In un mercato molto diverso, Apple sta cercando di reagire alla sua crisi d’immagine appropriandosi di un nuovo mestiere, la televisione. Apple ai tempi di Steve Jobs era maestra in questa “ibridazione” o contaminazione: espandere un marchio forte, usandolo per scardinare antichi business e reinventarli.
I Padroni del Mondo sono il vero motore dei rialzi di Borse. Negli Stati Uniti il listino di tutti i record, lo Standard & Poor’s 500, ha la caratteristica di concentrare il massimo numero di multinazionali. Molti di quei titoli sono ai massimi storici proprio perché la dimensione transnazionale consente di approfittare della crescita là  dove la crescita c’è: in questo momento tira il mercato dei consumi cinese ma anche il Messico; chi ha la stazza per essere pronto a profittare di queste “locomotive” ha una marcia in più anche in Borsa. Per la stessa ragione è ripresa la corsa al gigantismo attraverso le acquisizioni. Tra le ultime maxi-fusioni: il colosso belgaamericano delle birre Anheuser Busch (Budweiser, Stella Artois) sta conquistando il gruppo messicano Modelo (Corona). Il numero uno americano della tv satellitare, Dish Network, vuole as-
sorbire Sprint che è il terzo operatore di telefonia mobile. American Airlines si unisce con Us Airways per creare la più grande compagnia mondiale.
La marcia in più che hanno le multinazionali, fa di questi giganti una specie prolifica. Nella selezione darwiniana vincono loro, quindi si riproducono e si moltiplicano nonostante le fusioni e le spinte monopolistiche. C’erano “solo” tremila imprese transnazionali nel 1990, oggi siamo ben oltre la soglia delle 60.000 secondo l’atlante Globalinc. Agli albori della loro ascesa mondiale, cioè negli anni Sessanta, si trattava di un fenomeno prevalentemente americano: quasi i due terzi avevano il loro quartier generale negli Stati Uniti. Oggi le americane sono appena il 25% mentre nel 2012 è l’area dell’Asia-Pacifico che ha fatto il sorpasso piazzandosi in testa (un’area molto ampia, include Cina Giappone Corea del Sud Australia).
Siamo entrati già  da tempo in un’èra in cui questi giganti privati sono più potenti degli Stati nazione. L’Unctad (agenzia delle Nazioni Unite) calcola che sulle prime cento potenze mondiali — in termini di Pil o fatturato — ben 55 sono imprese, solo 45 sono Stati sovrani. E la tendenza viene accelerata proprio dagli effetti dell’ultima crisi. In particolare, dalle politiche di austerity. Che l’austerity sia una religione di Stato come in Europa, oppure che venga applicata a malincuore alla finanza pubblica per lo stallo politico tra esecutivo e Congresso (come avviene qui negli Stati Uniti), sta di fatto che gli Stati sono in ritirata. Hanno meno risorse da spendere. Ecco che le multinazionali riempiono gli spazi lasciati liberi dai governi, invadono settori un tempo riservati alla sfera pubblica, si conquistano un ruolo di supplenza. Nella politica estera Usa, un attore sempre più dinamico è il chief executive di Google, Eric Schmidt: reduce da viaggi in Cina, Corea del Nord, Birmania, Schmidt sta diventando una sorta di “segretario di Stato ombra” che si occupa in prima persona di diritti umani, censura, rapporti con i regimi autoritari. Nella riforma dell’immigrazione, il Congresso degli Stati Uniti dovrà  subire una pressione sempre più forte da parte di Facebook: il suo fondatore e chief executive Mark Zuckerberg ha lanciato una lobby di tutta la Silicon Valley per una politica di frontiere aperte ai talenti stranieri. La crisi della finanza locale in alcuni Stati Usa costringe a ridurre i fondi per le università ? A compensare quei tagli ci pensa Michael Bloomberg, sindaco di New York, ma soprattutto fondatore e azionista dell’agenzia d’informazione finanziaria che porta il suo nome. Con 25 miliardi di patrimonio personale, il decimo uomo più ricco d’America ha staccato di recente un assegno da 1,1 miliardi per l’università  dove si laureò, la Johns Hopkins di Baltimora.
Che bisogno c’è di supplicare il governatore dello Stato, quando i fondi privati delle aziende o dei loro proprietari possono compensare tutti i tagli ai finanziamenti pubblici, e garantire alle università  altri decenni di ricerca?
Le multinazionali diventeranno sempre più determinanti anche nel futuro del Welfare. I fondi pensione da cui dipende il tenore di vita degli anziani, stanno riposizionando i loro portafogli d’investimento per ridurre i titoli di Stato (che non rendono niente) e aumentare le azioni: i futuri pensionati dovranno sperare nei dividendi di Exxon, General Electric, Apple e Microsoft. A maggior ragione nell’assistenza medica, dove si espande il ruolo delle case farmaceutiche e dei grandi gruppi della biogenetica.
I Padroni del Mondo, attraverso la forza dei loro marchi globali plasmano non soltanto le nostre abitudini di consumo “materiale”, ma anche i consumi immateriali: le comunicazioni attraverso l’iPhone o il software Galaxy della Samsung, le relazioni sociali attraverso Facebook e Twitter, l’accesso all’informazione via Google. Sono loro a determinare le direzioni dei grandi flussi d’investimento, quindi le dinamiche dell’occupazione. Sempre di più, ai loro tradizionali poteri economici aggiungono anche una capacità  di plasmare valori, stili di vita, la rappresentazione che abbiamo del mondo. Non è estraneo allo spirito di questo tempo un fenomeno politico come il M5S che in alcune componenti pratica una sorta di “idolatria del web” equiparandolo a una democrazia “2.0”, allo stato puro. Questa visione di Internet, luogo egualitario e partecipativo, nelle giovani generazioni sostituisce antiche religioni o chiese laiche come il marxismo: è “organica” ai ventenni come Zuckerberg, che il loro marchio globale lo incollano a questa ideologia. Un tempo denunciate e combattute dalla sinistra e dai sindacati come potenze demoniache, le multinazionali padrone dei grandi marchi globali dell’hi-tech sono corteggiate da Barack Obama, Al Gore e tutti i politici progressisti, per la potenza di fuoco che possono dispiegare a sostegno delle loro cause liberal.


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