Il disco rotto del rigore

by Sergio Segio | 11 Aprile 2013 7:48

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NEW YORK. IL FONDO monetario parla di un “mondo a tre velocità ”: quella europea è l’ultima. Barack Obama torna a temere per le sorti dell’euro, manda in missione speciale il suo segretario al Tesoro, ma non smuove la Germania. Intanto i mercati vivono un’euforia ingannevole di cui lo spread italiano è il simbolo più vis toso.
Questo spread ai minimi per un paese che non riesce a formare un nuovo governo da 48 giorni, è l’equivalente del “cane che non abbaiò” per Sherlock Holmes. Da qui si può cominciare il viaggio nelle divergenti terapie per la ripresa economica. Perché lo spread italiano è la conseguenza di eventi che stanno accadendo dalla parte opposta del pianeta, una rivoluzione chiamata Japanomics.
LA BANCA centrale di Tokyo sta cercando di svegliare dal torpore un’economia depressa da vent’anni di stagnazione (attenti: de te fabula narratur, il prossimo Giappone siamo noi). Per riuscirci Tokyo ricorre a una strategia spregiudicata, un esperimento di iperattivismo monetario, con l’obiettivo apertamente dichiarato di “fabbricare inflazione”. Stampar moneta senza limiti, comprare bond al ritmo di 70 miliardi al mese, far crollare il valore dello yen, tutto l’opposto di ciò che insegnavano i manuali delle banche centrali dagli anni Settanta in poi. La rivoluzione copernicana riceve la benedizione del Fondo monetario internazionale, anch’esso in preda a una revisione delle sue dottrine tradizionali, e ormai convinto che “a mali estremi, estremi rimedi”. Un effetto collaterale della Japanomics è questo: poichè i titoli del
Tesoro giapponese non rendono più nulla, ma proprio nulla, quel vasto deposito di risparmi che è l’economia del Sol Levante sta cercando altrove dei rendimenti positivi. E in Europa, dove non c’è un’analoga politica del “tasso zero”, i buoni del Tesoro rendono ancora qualcosa. Di qui un flusso di acquisti che si è riversato in primis sui bond pubblici francesi ma ha beneficiato anche i nostri Bot e Btp.
L’audace esperimento nipponico, che punta a rilanciare la crescita a Tokyo, “addormenta” il senso del pericolo degli europei generando questa artificiale riduzione dello spread. E’ un fenomeno eterodiretto, e non c’è nessuna buona notizia dietro: anzi l’Europa entra in una fase in cui la Francia è designata come “la prossima grande malata” dietro l’Italia (e intanto sinistri scricchiolii di crisi periferiche minacciano dopo Cipro anche il Portogallo e la Slovenia). Il terremoto dello yen, che ha perso il 22% del suo valore in soli sei mesi, ci avverte inoltre che ha ripreso a divampare la “guerra delle monete”, nella quale l’euro è il vaso di coccio. Tutti gli altri spingono le svalutazioni competitive, la Bce non riesce o non può, così l’euro resta inchiodato a livelli incompatibili con la competitività  dell’export italiano o francese. Le guerre tra monete, in passato furono anche cause di improvvisi scossoni destabilizzanti: un precedente periodo di folli giravolte nel rapporto dollaro-yen fu il 1995-1997, seguito dal default russo e dalla crisi finanziaria asiatica.
Nel mondo “a tre velocità ” che descrive il Fmi, chi sta meglio per ora sono alcune potenze emergenti come la Cina che continua a crescere a ritmi robusti (anche se con forti segnali di “bolla” immobiliare). Dietro però incalza l’America, che fu pioniera nell’inaugurare la revisione dei dogmi. La Japanomics è un’imitazione della politica di “quantitative easing” inventata da Ben Bernanke, il presidente della Federal Reserve. Prima di fare il banchiere centrale degli Stati Uniti, Bernanke fu un autorevole studioso della Grande Depressione degli anni Trenta. Fra i grandi timonieri dell’economia globale, è lui uno dei più consapevoli degli errori che bisogna evitare per non “rifare gli anni Trenta”. Stampa moneta a più non posso (85 miliardi al mese), infischiandosene delle critiche piovute dalla destra repubblicana e dei dissensi sempre più aperti che affiorano in seno alla Fed. Ma non è solo monetaria la terapia che ha consentito all’America di uscire dalla crisi. Uscire, significa questo: siamo ormai oltre i tre anni di crescita economica, con un aumento dell’occupazione costante. Ha fatto notizia in senso negativo venerdì scorso il dato dei “soli” 88.000 posti di lavoro aggiuntivi creati nel mese di marzo, perché l’America ci ha abituato a crearne dai 150.000 in su al mese. La differenza è enorme rispetto al milione di licenziamenti nell’Italia del 2012. Ieri Obama ha presentato il suo nuovo piano di bilancio, e in quel testo c’è tutta la divergenza tra la via americana alla salvezza e l’immobilismo europeo. Obama propone una “austerity di sinistra”. Include anche una riforma del Welfare, con tagli modesti e oculati, pensioni incluse. Ma spalma questi sacrifici su un decennio. Mentre nell’immediato dà  la priorità  a una manovra di segno opposto: nuovi investimenti pubblici per la crescita. E’ la “politica dei due tempi” nella sua declinazione virtuosa: prima bisogna dare lavoro a tutti, poi con la ricchezza che tornerà  ad aumentare si potranno anche fare le riforme strutturali che riducono l’aumento tendenziale delle spese sociali. L’America di Obama ha “osato” un deficit/ Pil del 10% nel momento più duro della recessione, quest’anno scende già  al 4,4% e alla fine del decennio sarà  all’1,7%. Il risanamento dei conti deriva dalla crescita, non il contrario. Il piano Obama sarà  oggetto di furiose battaglie al Congresso, però è su quello che dovranno confrontarsi tutti.
L’Europa è sorda alla lezione americana. Eppure la strategia di Obama assomiglia a quel che fece il cancelliere socialdemocratico Gerhard Schroeder: razionalizzò il Welfare tedesco in modo equilibrato, a tempo debito, lasciando ad Angela Merkel una competitività  accresciuta. Oggi il vento che soffia in Europa è ben diverso. Lo ha constatato Jacob Lew, neosegretario al Tesoro, al termine di una tournée a Bruxelles, Berlino, Francoforte e Parigi dove si è sentito ripetere il leitmotiv da “disco rotto” sull’austerity. “Tagliando i deficit si ricrea fiducia, e con la fiducia ripartirà  la crescita”, gli ha detto il ministro dell’economia tedesco Wolfgang Schaeuble. E’ come un mantra, formula magica o preghiera agli dèi. Lo si continua a recitare mentre il Vecchio continente sprofonda in una recessione che ormai avvolge anche il suo nucleo duro franco-tedesco.

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