Il potere del Quirinale

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Con tre forze politiche sostanzialmente alla pari e ciascuna largamente minoritaria. Persino la sorpresa grillina si sta rivelando incapace di offrire uno sviluppo concreto alle proposte avanzate in campagna elettorale e urlate da una base che voleva in primo luogo “rottamare” la classe politica che ha governato il Paese negli ultimi venti anni.
Dinanzi ad una debolezza tanto manifesta, il nostro sistema istituzionale sta rispondendo cercando di colmare quel vuoto. Come sempre accade in politica gli spazi lasciati liberi vengono sempre riempiti. Da altre forze politiche o, come in questo caso, da una figura “terza”. La crisi dell’intero sistema politico si sta affidando all’unico punto di riferimento democratico e autorevole che il Paese ha conservato: il presidente della Repubblica. Il quale – come ha detto con nettezza lo stesso Napolitano – sta cercando, suo malgrado, di colmare tutti quei vuoti. La fiacchezza dei partiti sta dunque trasformando il Quirinale. La forza del capo dello Stato sta crescendo in misura proporzionale alla gracilità  di un sistema sempre più in difficoltà . Non è un caso che molti dei leader che si sono presentati sul Colle per le consultazioni si sono nella sostanza consegnati all’unico “garante” dell’unità  nazionale. Una situazione che potenzialmente è in grado di trasformare in via di fatto i poteri che la Costituzione assegna al capo dello Stato. Come ha scritto Ilvo Diamanti sul nostro giornale, siamo di fronte ad una sorta di “presidenzialismo preterintenzionale”. Ad un assetto che si avvicina sempre più al prototipo francese. Non è un caso che ormai quasi tutti definiscono il prossimo governo un “esecutivo del presidente”. In cui il vero ombrello politico è stato aperto dal Quirinale prima ancora che da una maggioranza presente in Parlamento. E mai come questa volta sarà  applicato alla lettera l’articolo 92 della Costituzione: “Il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei ministri e, su proposta di questo, i ministri”.
Una circostanza che marca ancora di più l’esplosione che sta subendo il centrosinistra italiano. Una coalizione che si è presentata solo 58 giorni fa con un’alleanza – quella tra Pd e Sel – che si definiva di governo e che ora già  non esiste più. Con il partito di Vendola all’opposizione e con il Partito Democratico alla ricerca di una identità . La direzione di ieri ha messo a nudo questa situazione. Senza guida, con una molteplicità  di posizioni sulla natura del sostegno da dare al prossimo governo. Chi vuole un esecutivo tecnico, chi politico, chi tecnico-politico. In un primo momento il partito si è ricompattato intorno al nome di Matteo Renzi – che supera così una sorta di conventio ad excludendum– e poi si è fatto bloccare dal veto del Pdl e
di Silvio Berlusconi. Uno stato maggiore talmente paralizzato dagli errori commessi in questi due mesi da salire sul Colle per il colloquio con Napolitano senza formulare una candidatura per Palazzo Chigi. Neanche un nome, come se il Pd non fosse il primo partito in Italia, come se i suoi gruppi alla Camera e al Senato non fossero quelli più numerosi. Pronti ad accettare qualsiasi scelta. Persino una risorsa del centrosinistra come Giuliano Amato è stato lasciato nelle mani di Berlusconi. Anzi, in direzione sono stati espressi dubbi sul suo nome e sulla possibilità  che l’ex premier possa infiammare ancora di più la base militante del Pd. Ma nessuno ha poi avuto la forza o la voglia di dichiarare di questi dubbi o di superarli davanti al presidente della Repubblica. Una condizione di stallo assoluto che produce un solo effetto: ampliare la disaffezione dei cittadini nei confronti della politica e regalare un altro assegno in bianco al Cavaliere.


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