Kim: via gli stranieri da Seul I Patriot nel centro di Tokyo

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PECHINO — Dev’essere rovente la linea telefonica tra Pechino e Pyongyang: la Cina, unico vero alleato del «regno eremita», sta cercando di fermare i nordcoreani prima che mettano in pratica una delle loro numerose minacce. Si va dal cannoneggiamento di un’isoletta della Sud Corea all’attacco missilistico sul territorio americano. La risposta pubblica è arrivata ieri con un comunicato della «Commissione per la pace in Asia» di Pyongyang: «La situazione va verso una guerra termonucleare. Non vogliamo che gli stranieri residenti in Corea del Sud siano feriti. Avvisiamo tutte le società  e le organizzazioni e i turisti a preparare l’evacuazione o a cercare un adeguato rifugio».
Il ministero della Difesa sudcoreano dice che la sua intelligence ha rilevato movimenti tali sulla costa orientale del Nord da far ritenere che «tutto è pronto per il lancio di un missile a medio raggio. Tecnicamente possono farlo in qualsiasi momento a partire da ora». Il momento potrebbe essere oggi: la settimana scorsa Pyongyang aveva «suggerito» ai diplomatici di evacuare le loro ambasciate il 10 aprile, in previsione di una sua azione e di una rappresaglia del Sud.
A Seul, distante poche decine di chilometri dal 38° parallelo dove sono schierati tra l’altro 10 mila pezzi d’artiglieria nordisti, la gente sembra ancora fiduciosa che si tratti solo di strategia della tensione. Ma il Giappone ha reagito con una mossa drammatica: nel centro di Tokyo sono state schierate tre batterie di Patriot antimissile. Il governo del premier Shinzo Abe non ritiene che un missile possa essere sparato direttamente sulla capitale e i suoi 30 milioni di abitanti, ma siccome in passato ordigni nordcoreani lanciati «per esperimento» sono passati sul suo spazio aereo, si prepara a ogni eventualità .
Anche gli americani stanno studiando d’accordo con i sudcoreani «risposte proporzionate». Fonti del Pentagono hanno detto al Washington Post che in caso di bombardamento su un’installazione militare del Sud le forze di Seul reagirebbero con un analogo fuoco di artiglieria. Più in là  gli anonimi funzionari non si sono spinti, non hanno voluto spiegare che cosa farebbero se fosse colpita Seul o in caso di test nucleare. La speranza è che lo strapotere di fuoco Usa dissuada il Nord.
Ma al di là  della cosiddetta «retorica di guerra», Pyongyang ha chiuso le 123 fabbriche nella zona speciale di Kaesong, dieci chilometri all’interno del suo confine con il Sud. In questo complesso aperto nel 2004 con investimenti sudcoreani per almeno mezzo miliardo di dollari, oltre 50 mila operai del Nord sfornano prodotti che vanno dai tessuti agli utensili per cucina per conto dei sudcoreani che poi li esportano. A Pyongyang arriva in cambio valuta pregiata: circa un miliardo di dollari l’anno. Il progetto doveva servire a indirizzare il regime comunista dei Kim verso un’economia di mercato. Il blocco della produzione viene interpretato come un gesto di follia autodistruttiva.
Gli analisti credono ancora che tutto faccia parte di una strategia per accreditare come condottiero all’interno del regime il trentenne Kim Jong-un, succeduto al padre morto nel dicembre del 2011. Secondo l’intelligence, dietro il piano ci sarebbe la mano degli zii di Kim: una coppia di 66enni formata da Kim Kyong-huy e dal marito Jang Sung-taek. Agli zii sarebbe stato affidato il consolidamento della dinastia dal morente Kim Jong-il, padre di Kim Jong-un. Zia Kim sarebbe l’ideologa della famiglia, avrebbe ispirato lei le frasi guerresche del giovane dittatore, che in queste settimane è andato in giro con cappotto verde oliva, binocolo in una mano e pistola nell’altra a gridare: «Seul sarà  un mare di fuoco», «non faremo prigionieri», «colpiremo l’isola americana di Guam e anche il continente Usa». Per concludere (per ora) con una frase machista rivolta alla signora Park, neopresidente della Corea del Sud: «Disprezziamo il fruscio venefico della sua gonna».
Tra poche ore forse sapremo fino a dove gli zii abbiano deciso di far spingere l’autoproclamato «Maresciallo Kim Jong-un, il più grande comandante supremo della storia».
Guido Santevecchi


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