La spending review dei Paperoni

by Sergio Segio | 16 Aprile 2013 6:49

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La crisi è uguale per tutti. E dopo aver falcidiato i bilanci di interi paesi e i portafogli della gente comune tracima — con un po’ di ritardo — anche nelle tasche dei super-manager mondiali, dei mega-dirigenti e dei politici. Che, più o meno volontariamente, si stanno tagliando lo stipendio. Perché socialmente, ancor prima che economicamente, certe cifre non sono più accettabili. I ricchi, meglio dirlo subito, ancora non piangono: gli stipendi medi dei numeri uno delle aziende di Wall Street sono cresciuti negli ultimi due anni del 16% contro il +4% delle buste paga dei loro dipendenti. Quelli dei loro colleghi a Piazza Affari, dove certo non tira una bella aria, sono aumentati nel 2012 del 12%. Anche per i Paperoni mondiali però — complici la moral suasion di Fed e Bce e i tetti a compensi e bonus imposti da Casa Bianca e Ue — è scattata l’ora della spending review. E da New York alla City, dai gestori di hedgefund fino ai dirigenti di casa nostra è scoppiata la mania dell’auto-riduzione dello stipendio d’oro.
Il buon esempio è arrivato dall’alto. Barack Obama, alle prese con i tagli di bilancio del fiscal cliff, ha rotto il ghiaccio sforbiciando 20mila dollari l’anno (pari a un -5%) dalla sua busta paga. Ignazio Visco, governatore della Banca d’Italia, è stato ancora più drastico, ridimensionandosi del 35% i compensi e rinunciando a 262mila euro l’anno. Battuto a stretto giro di posta prima da Mario Monti — che ha detto “no” ai i 12mila euro di stipendio da premier — e poi da Laura Boldrini e Pietro Grasso che come primo atto da presidenti di Camera e Senato si sono dimezzati la busta paga.
Scelte coraggiose che, miracolosamente, hanno iniziato a far proseliti anche nel settore privato. Herbert Stepic, numero uno della banca austriaca Raiffeisen ha restituito la scorsa settimana due milioni di euro — il 40% dei suoi compensi del 2012 — perché «non è giusto essere remunerati in modo sproporzionato ». James Crosby, baronetto della Corona britannica ed ex amministratore della Hbos, ha rinunciato a scoppio ritardato al titolo di Cavaliere e a un terzo della sua pensione (ora 300mila euro al mese) riconoscendo ex post le sue colpe nel crac della banca salvata due anni fa dai soldi dei contribuenti inglesi. Una spending review fai-da-te che inizia a far breccia sia nelle stanze dei bottoni dei ricchissimi hedge fund che tra i supermanager del Belpaese.
Gli esempi virtuosi L’inversione di rotta, a ben vedere, oltre che spontanea ha una componente “spintanea”. I governi hanno pagato negli ultimi anni 3.500 miliardi (sotto forma di aiuti pubblici) per salvare le banche mondiali dai guai combinati da manager pagati a peso d’oro. E in quell’occasione hanno varato un drastico giro di vite
sui super-stipendi. Washington — grazie anche alla pressione emotiva di “Occupy Wall Street” — ha obbligato le società  quotate a sottoporre a votazione dei soci le remunerazioni. La Ue ha approvato un tetto ai bonus dei banchieri (non potranno essere più del doppio della paga base). Persino gli svizzeri, come
indignados qualsiasi, hanno detto sì con maggioranza bulgara al referendum per tagliare gli stipendi d’oro dopo lo scandalo della buonuscita da 67 milioni promessa (e poi ritirata) dalla farmaceutica Novartis all’ex numero uno Daniel Vasella.
Pochi però speravano che il messaggio arrivasse a destinazione così in fretta. Prendiamo l’Italia e le sue banche, un Eldorado che solo nell’indimenticabile 2006 — un anno prima del colpo basso dei subprime — aveva regalato 500 milioni di stock-option ai fortunati dirigenti di prima fila. Oggi il vento è girato. Alessandro Profumo, appena arrivato al vertice di Mps, ha rinunciato allo stipendio da presidente. Un modo per provare a far dimenticare i 4 milioni di buonuscita pagati un anno prima ad Antonio Vigni, uno degli artefici del buco di Siena. I vertici di Unicredit, pur avendone diritto, hanno deciso di non pagarsi il bonus. I top manager di Mediobanca — fino a pochi anni prima tra i più ricchi golden boy di Piazza Affari — hanno presentato al cda (non sollecitati)
la delibera per l’autoriduzione del 40% delle loro buste paga. E il presidente Renato Pagliaro ha detto “no” a una buonuscita da 10 milioni che gli sarebbe spettata di diritto. D’altra parte c’è anche la politica che prova ad adeguarsi: i presidenti di Camera e Senato, Boldrini e Grasso, si sono subito autoridotti il compenso del 30%.
Il segnale, pare impossibile, è arrivato anche a casa Berlusconi. I conti di Mediaset non sono più quelli di una volta. La società  è stata costretta a varare un drastico taglio dei costi e il primo a dare il buon esempio è stato Fedele Confalonieri, sforbiciando il 22% (pari a 800mila euro l’anno) dai suoi compensi.
La moral suasion di Merkel Stessa musica nel resto del mondo. «Dobbiamo dire basta a stipendi che sono ormai arrivati a cifre da fantasia», ha tuonato qualche mese fa Angela Merkel. Detto fatto. Martin Winterkorn, numero uno della Volkswagen, ha chiesto al cda di Wolfsburg un taglio ai suoi emolumenti (peraltro 20 milioni l’anno) definendoli «difficili da spiegare alla gente» anche in un’oasi felice come la Germania.
La doccia di realismo, con annessa ondata di auto-riduzioni, è arrivata anche a Wall Street, la vera patria mondiale degli stipendi da sogno. Certo qualche stortura resiste ancora: Larry Ellison ad esempio, patron di Oracle, guida la classifica dei manager più pagati del 2012 con 96 milioni, malgrado i titoli della società  (che gli paga pure 1,5 milioni l’anno per la security personale) abbiano perso il 22%.
Ma anche a Manhattan e dintorni, specie nelle stanze ovattate delle banche d’affari, le buste paga stanno lentamente tornando con i piedi per terra. Un trader infedele fa perdere a Jp Morgan 6,5 miliardi con scommesse sbagliate sui derivati? A pagare il conto è anche l’ad Jamie Dimon che lo scorso hanno ha deciso — bontà  sua — di dimezzarsi i compensi a 11,5 milioni di dollari, chiedendo indietro 100 milioni ai dirigenti responsabili del buco.
I signori dello spread Vacche magre, si fa per dire, anche per gli impiegati delle merchant bank a stelle e strisce. I bonus 2012 sono stati pari a 20 miliardi di dollari e lo stipendio medio è stato di «soli 326mila dollari a testa». Uno sproposito, per carità . Ma pur sempre il 30% in meno degli anni d’oro di inizio decennio. La sperequazione sociale, ovvio, è ancora evidente — il 93% degli aumenti di stipendio distribuiti negli Usa nel 2010, calcola l’University of California, è finito in tasca all’1% degli americani — ma almeno la forbice si sta riducendo in un’America dove lo stipendio di un amministratore delegato vale oggi 354 volte quello medio di un dipendente, contro
le 42 volte del 1982.
Un po’ di spending review è toccata persino ai signori dello spread, quegli spregiudicati gestori di hedge fund che ogni giorno, muovendo i mercati con i loro complessi algoritmi, scommettono cifre da paura sui derivati. Nel 2012, calcola Forbes, hanno ridotto le loro buste paga della bellezza di 8 miliardi di euro. Difficile però che qualcuno, mosso a compassione, avvii una colletta di solidarietà . Il compenso medio dei 40 maggiori manager del settore è stato di 471 milioni. L’austerity, per loro, ha ancora molta strada da fare.

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