“Lacrime, preghiere e terrore i miei dieci giorni all’inferno”

by Sergio Segio | 15 Aprile 2013 6:41

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CINQUE bibbie sul sedile posteriore del nostro van. Quattordici cartine arrotolate sul muro di quella che probabilmente era la scuola del villaggio. La mente a volte si fissa nei dettagli marginali. Dieci giorni di fermo. Dieci giorni d’inferno.
Il mio primo luogo di detenzione è stata la nostra auto, il secondo, una specie di aula abbandonata.
IL TERZO una casa prigione, il quarto, un appartamento occupato da una coppia di marito e moglie jihadisti. All’inizio sembrava un disguido, un semplice controllo delle immagini che avevano girato coi colleghi dentro una Chiesa profanata. «Vogliamo vedere cosa avete ripreso se ci sono i nostri volti». Una richiesta legittima, fatta da una decina di uomini armati.
Inizia così il nostro sequestro, mercoledì 3 aprile alle due del pomeriggio, in cima a una dolce collina nel Nord della Siria, in uno scenario quasi umbro. «Controlliamo le immagini e vi restituiamo le attrezzature, venite nella nostra base ». Dopo il sequestro di tutte le nostre apparecchiature, compresi i telefonini, scivoliamo lentamente dentro una lunga attesa, dalle tre alle sette. Al nostro autista viene chiesto di consegnare le chiavi del van. Il mio stomaco si chiude, inizio a distrarre la mente osservando inutili particolari.
Cosa attendiamo? L’arrivo dello sheikh, il leader religioso di questo nutrito gruppo di combattenti islamici. Non importa chi ha profanato quella chiesa, quel che importa è che noi eravamo lì e avremmo potuto attribuire quello scempio al loro gruppo. Lo sheikh arriva a tramonto inoltrato, il paesaggio diventa improvvisamente spettrale, manca l’elettricità , il villaggio è disabitato a causa dei costanti bombardamenti. L’intero paesino collinare si trasforma di fatto nella nostra prigione. Lo sheikh è sospettoso: la prima accusa che ci rivolge è quella di essere spie, ma ci interroga separatamente. Conoscendo l’ideologia del gruppo mi separo spontaneamente dai colleghi uomini. Mi viene rivolta l’accusa di appartenere ai servizi segreti. Siriana con passaporto italiano. Tanti timbri libanesi sul mio documento di viaggio. «Per quale agenzia di Intelligence lavori?».
Rispondo la verità : sono una giornalista. Parlo con tono rispettoso, lo sguardo a terra. Lo sheikh ha un passamontagna, ma il suo aspetto fisico non mi impressiona. Capisco che ormai siamo nelle loro mani che non hanno nessuna intenzione di lasciarci andare via. Verso mezzanotte veniamo incappucciati e guidati altrove. Nell’auto lo sheikh mette le preghiere jihadiste a tutto volume. Dietro di me, sento il nostro autista vomitare. Il nostro traduttore piangere. L’uomo delegato alla nostra sicurezza prega. Io mi addormento.
Prima dell’alba arriviamo in una casa prigione dove mi viene assegnata una stanza con un materasso sudicio, ma tante coperte. Fa freddo. I miei colleghi italiani sono
nella stanza vicina. Qui le porte non servono, sono tutte divelte. Gli “shebab”, i ragazzi, armati di fucile, vigilano su di noi. Sheikh mi spiega le nuove regole del gioco: «D’ora in poi quando devi parlare ai ragazzi per chiedere di andare in bagno devi farlo sotto una coperta ». La coperta diventa il mio burqa. Sotto non vedo nulla, gli shebab mi tirano per un lembo. Il mio primo impatto con il bagno è a dir poco agghiacciante. Il primo giorno dormo tantissimo, nei miei sogni mando email e messaggi, comunico che sto bene.
Gli shebab ci portano da mangiare, nonostante la vicinanza con i colleghi non comunichiamo. Il secondo giorno di detenzione a fare da sveglia sono le urla che provengono dalla stanza affianco. Lo sheikh mi dice: «Non aver paura, non sono i tuoi amici, sono dei traditori che abbiamo appena arrestato ». Capisco che devo trovare un luogo più sicuro dove affrontare questa nuova vita. Potrebbe durare un altro giorno o un altro anno. Gli chiedo di farmi insegnare la preghiera da una donna. Nel villaggio ce n’è solo una. Mi viene concesso di andare da lei.
Il quarto giorno sono a casa sua, mi accoglie in niqab, ma si scopre subito il volto non appena chiusa la porta. È una dolce ventenne nordafricana, francofona. Le getto le braccia al collo. Lei ricambia l’abbraccio. Mette subito a bollire dell’acqua per farmi fare una doccia. Poi, mi insegna come si fa la preghiera e i precetti dell’Islam, cose che già  conoscevo. Il mio nuovo piccolo angelo carceriere la notte chiude a chiave la porta della stanza da letto dove dormiamo assieme. Ovviamente il marito è in un’altra casa con gli shebab. Durante la notte le bombe del regime sono una sorta di spaventoso sottofondo. Le pareti vibrano, lei ha pura, io no. Mi viene concesso di tenere un quaderno. Scrivo le preghiere e appunti personali. Mercoledì lo sheikh viene a prelevarmi da quella casa. Mi dice che mi libera. Non gli credo. Lo sheikh annuncia allora che dobbiamo aspettare che qualcuno venga a prenderci. Passano due giorni.
Il mio quaderno è sequestrato. Lo sheikh si presenta venerdì sera nella mia cella accusandomi di aver scritto un dossier contro di lui. «Cosa dovrei fare, ora? Tagliarti le mani? Spezzarti le braccia? Ucciderti. Ho intenzione di liberare i tuoi colleghi, ma tu resti qui». Nego di nuovo di essere una spia, ma i miei sforzi sono del tutto inutili. Il controllo fisico non basta, ora vuole il controllo del pensiero.
Sabato mattina torna per i liberare i colleghi, mentre continua a giocherellare col mio destino: «Se ti rilascio continuerai a pregare?». La mia risposta suona scontata anche alle sue orecchie. Prima di restituirmi l’Iphone controlla tutte le mie mail e le mie foto cancellando deliberatamente tutto ciò che è peccato. Il mio intero passato per lui sarebbe da cancellare: sono un ibrido da riplasmare.
(testo raccolto da Pietro Del Re)

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