L’elezione al Quirinale tra burattini e burattinai

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I BURATTINAI, le salamandre, gli spioni. C’è un mondo sopra, ombre semivisibili nella nebbia che sempre prelude al conclave del Quirinale, e un mondo sotto, un mondo dietro. Ancora più impalpabile, ineffabile, innominabile.
NOMI che non si leggono mai, quasi mai sui giornali. Una battaglia silenziosa di manovre felpate, coi buoni e i cattivi che somigliano – per dirlo a chi ha meno di trent’anni – a certi eserciti delle saghe fantasy. Sono tutti tessitori di trame ma alcuni difendono l’Impero, altri lo insidiano. Portano maschere, cambiano aspetto. Chi ha vinto lo si capisce sempre dopo, a guerra finita. «Perché il potere è fatto così – disse Francesco Cossiga durante un viaggio in cui era molto di buon umore, andava nei Paesi Baschi ad incontrare di nascosto alcuni fiancheggiatori dell’Eta, una sua passione – il potere ha bisogno di gente che sa stare al microfono e di gente che regola la sintonia della radio. Io ora faccio tutt’e due le cose, ma se dovessi scegliere direi che è certo più importante quello che manovra l’audio di quello che parla. Chi parla è un burattino, chi manovra è il burattinaio».
Cossiga, eletto presidente al primo scrutinio per uno dei rari patti efficaci fra Pci e Dc, aveva altre passioni, oltre alla consuetudine con terroristi ed ex terroristi di varie latitudini – li chiamava “resistenti”. Era pazzo per la massoneria, per i servizi segreti, per i militari. Appena eletto, Pertini ancora in carica, si era presentato al ministero della Marina ed aveva aperto la porta del Capo di stato maggiore Marulli, incredulo: «Capitano di fregata Francesco Cossiga ai suoi ordini », gli aveva detto mettendosi sull’attenti. Riceveva generali e semplici spalloni dei Servizi al Quirinale, l’ammiraglio Fulvio Martini presenza costante, costoro gli portavano in dono soldatini per la sua collezione. Una volta – c’era una cronista, di fronte a lui – telefonò chiamandolo “carissimo” al colonnello Tejero, golpista di Spagna, da anni irreperibile per chiunque. Un’altra volta ricevette un giornalista seduto a terra fra i suoi “baracchini”: passava le giornate così. Parlava alla radio in frequenze speciali, il suo nome in codice era Andy Capp. Stava in maniche di camicia seduto sul tappeto e smanettava i grandi apparecchi assistito dall’elettricista di palazzo, l’amico Pascucci. In stanza aveva quattro telefoni, tre tv e sempre una scatola di cioccolatini Baratti. Francesco d’Onofrio andava spesso a riferirgli le cose della politica. Di più gli piacevano però i retroscena dei massoni, di cui il Parlamento – diceva – era colmo. Sarebbe stato entusiasta, oggi, di manovrare e decifrare le primarie per l’elezione del prossimo Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia, Raffi scade nel 2014 e i giochi sono aperti. Avere un massone al Quirinale è sempre stata l’ambizione suprema, per i fratelli. Cossiga aveva in materia una biblioteca e un’agenda sterminata.
Fu con il Picconatore presidente che si vide l’ultima volta Licio Gelli passeggiare sotto i portici del Cortile d’onore. Aveva conservato, da tempi remoti, qualche buon amico. Gelli, sia detto sempre per chi ha meno di trent’anni, è stato a capo (o al microfono, per meglio dire. Altri alla sintonia delle frequenze) della loggia massonica deviata chiamata P2 che ha innervato di sé per decenni il destino del Paese arrivando in più di un’occasione a un passo dal prenderlo, ammesso che si possa dire che non lo abbia preso. Una sorta di Gollum della saga fantasy. Golpista, era entrato al Quirinale con Saragat complice la passione del Presidente per la caccia. Gelli lavorava per Giovanni Pofferi, padrone della Lebole di Arezzo che aveva anche un’azienda di materassi. Questo Pofferi desiderava molto essere nominato Cavaliere: mandò a Roma Gelli, che in poche settimane riuscì ad agganciare un paio di funzionari del Quirinale, il ministro plenipotenziario Raffaele Marras e il colonnello dell’aeronautica Otello Montorsi, attraverso di loro fece giungere al segretario particolare del presidente Costantino Belluscio un invito per il Presidente nella tenuta di caccia in toscana di Pofferi. Invito accettato. Nel corso della presidenza Saragat Licio Gelli partecipò come ospite – risulta agli atti – a sedici ricevimenti al Quirinale anche in occasione di visite di capi di Stato. Era registrato alla voce: “altri ospiti”. Il giorno dell’elezione di Giovanni Leone, era il dicembre del ‘71, mandò un telegramma a doppia firma col gran Maestro Lino Salvini: il messaggio era per il presidente, rivendicava il merito di aver concorso alla sua elezione con le decine di parlamentari che diceva di controllare. Chiedeva udienza, perciò, al nuovo capo di Stato.
In quel periodo Licio Gelli alloggiava all’Excelsior di via Veneto. Vedeva per consuetudine una volta alla settimana Andreotti, faceva spesso colazione con Forlani, due volte al mese era invitato a cena dal pre-
sidente del Senato Fanfani, la moglie Maria Pia gli serviva sformatini di verdure che – annota nei suoi diari – gli provocano costanti attacchi di stomaco. L’incontro con Leone gli fu accordato qualche tempo dopo la richiesta dal Segretario generale Nicola Picella, che aveva ricoperto quel ruolo anche con Saragat. Più avanti Gelli provò a far ricevere al Quirinale il generale argentino Massera, questa volta per buona sorte senza successo. Il 15 giugno ’78, all’alba, lo chiamò uno dei suoi informatori dal Colle: il Presidente sta per dimettersi, gli disse. Informazione corretta. Leone se ne andò alle dieci di sera, sotto il diluvio. La mattina dopo Gelli disse a Franco Picchiotti, ex capo di stato maggiore dei Carabinieri: «Troppo presto e a sorpresa. Si vota fra 15 giorni. Se avessi avuto un mese il prossimo presidente lo avrei fatto eleggere io». Millantava spesso, ma non sempre e non del tutto.
Sono passati quasi quarant’anni e sono cambiati i nomi, i volti, la natura e la ragione delle pressioni. Non è cambiato però il ruolo di chi quelle pressioni può favorirle o respingerle, di chi può servire le istituzioni o tradirle. Sergio Piscitello, antico funzionario del Colle, racconta che grande è il potere delle “salamandre”, coloro che riescono a cambiare colore restando al loro posto, così come immenso è il potere delle “vestali”, i devoti del servizio, custodi della Presidenza addetti a respingere gli attacchi.
La figura del Segretario generale del Quirinale è strategica nella battaglia. Può aprire o chiudere la porta. Per dirne solo una: tutti gli atti alla firma del Presidente – tutti – passano dalla sua scrivania. In molti casi le forze politiche che hanno determinato l’elezione del Capo dello Stato hanno posto al candidato come condizione la scelta del segretario generale. Moro andò da Saragat a dirgli: ti votiamo, ma devi richiamare in servizio Nicola Picella. Saragat eseguì. Il barone Picella, nobiluomo di origini liberali, era stato segretario generale sul finire della presidenza Einaudi. Entrambi zoppi – Einaudi a destra per un incidente giovanile, Picella a sinistra per la poliomelite – avanzavano nei corridoi del Colle affiancati, le due gambe sane al centro, tirando uno da un lato l’altro dall’altro. Li chiamavano, per questo, gli sciatori. Di Picella si ricordano le telefonate laconiche: “Hai avuto quella carta? Perfetto. Mettila via”. Dopo Gronchi e Segni Moro volle che Saragat, di cui non si fidava fino in fondo, fosse sotto la tutela del gelido Picella, il “Baron Glacèe”. Allo stesso modo molti anni dopo la permanenza di Antonio Maccanico al Colle fu una delle condizioni che De Mita, Chiaromonte e Andreotti misero all’elezione di Cossiga a suggello del patto Pci-Dc. Come De Mita, Maccanico – che aveva assistito da Segretario generale l’esuberante settennato di Pertini – era irpino. La geografia in politica ha il suo peso. Difatti Cossiga accettò la condizione fino a che la “brigata Sassari” non fece prevalere la pretesa che nel posto chiave andasse il sardo Sergio Berlinguer, cugino del presidente. In una catena di scale mobili fuori sincrono – i presidenti passano, i segretari generali restano – Cossiga provò a sua volta a vincolare l’elezione di Spadolini, indicato come probabile suo successore, alla permanenza di Berlinguer al Colle. Il patto fu stretto ma la strage di Capaci cambiò la rotta della storia e fu eletto, all’indomani dell’assassinio, Scalfaro.
Con Oscar Luigi Scalfaro, presidente imprevisto, le “forze oscure” subiscono un colpo mortale. Con la stessa intransigenza con cui in gioventù schiaffeggiava le signore scollate dal momento esatto della sua elezione l’uomo del “No, io non ci sto” smette di aprire le buste con lo stemma cardinalizio, cessa di rispondere al telefono. Siamo nel pieno di Tangentopoli, ’92-‘94. Agli antipodi da Silvio Berlusconi («Mi dava, coi suoi modi, fastidio persino fisico», diceva l’ex presidente solo pochi mesi prima di morire) chiama accanto a sè dal Senato Gaetano Gifuni, che era stato con lui ministro nel breve governo Fanfani. Le porte del Quirinale restano impermeabili, in quegli anni, agli spioni ai generali e ai burattinai. A molti leader politici, persino, che difatti iniziano a considerare Scalfaro un problema. Pochissimi i consiglieri, sempre filtrati dall’annuire della figlia Marianna. Solo il capo della Polizia Parisi è ammesso, tra gli esperti di pericoli, a riferirgli cosa accada nel Paese ivi comprese le minacce di stragismo mafioso. Se in questo senso Scalfaro ha preso decisioni, come qualcuno ha sussurrato a proposito della “trattativa” fra Stato e mafia, si può star certi – assicura oggi chi gli è stato vicino – che anche in quel caso ha deciso da solo. D’ora in avanti – da Ciampi in poi – saranno la grande finanza, il mondo degli affari, gli “agenti sovranazionali” e insieme i piccoli corrotti e le camorrìe degli appalti che muovono ogni cosa a pretendere di fare da burattinai. Non ci sono più i materassai: il mondo cambia, comincia un’altra storia.
(4 – continua)


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