L’intesa è appesa a un filo Schema dei leader travolto

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ROMA — «Non è un problema di nomi. La candidatura di Marini era portatrice di un’opzione politica. Se questa opzione salta, l’altra ci porterà  dritti alle elezioni. E c’è poco tempo per trovare una soluzione: se entro trentasei ore non ci si riesce, si va a votare». Il ragionamento di Casini scavalca la questione del Quirinale e si proietta sulle sorti di una legislatura che — senza un’intesa tra Pd, Pdl e centristi sul nome del futuro capo dello Stato — rischia di spirare «un minuto dopo la scelta del successore di Napolitano». La soluzione Cancellieri proposta ieri sera da Monti a Bersani e Berlusconi, anche per uscire dall’angolo, vuole evitare questa deriva. Il punto è che l’esito della prima votazione per il Colle ha compromesso il piano per costruire attorno alla presidenza della Repubblica un governo capace di tenere insieme i tre poli che si sono sfidati nelle urne.
Non a caso il Cavaliere, ieri, dopo aver ripetuto per tutto il giorno che bisognava «insistere sulla candidatura di Marini», sembrava tentato di cambiare idea, offrendo a Bersani la propria disponibilità  a discutere su Mattarella. Una svolta che sarebbe stata clamorosa, tesa a evitare il peggio, a impedire lo scenario che il capogruppo del Pd Zanda teorizzava in Transatlantico al termine della seconda votazione per il Quirinale: «Il nostro rapporto con Monti è complicato, quello con il Pdl è ancora più complicato. Perciò la nostra unica speranza è tenere unito il partito e il centrosinistra». Puntando su Prodi, ovvio.
Perché è questo lo spauracchio che si è materializzato all’orizzonte per il leader del Pdl, deciso a sbarrare il passo all’acerrimo rivale. Ma la drammatica bocciatura di Marini è stata anche — anzi soprattutto — la bocciatura di Bersani, una vera e propria mozione di sfiducia verso il segretario del Pd, che si era intestato il progetto di una «larga intesa» sul Quirinale. «Bersani mi aveva dato precise garanzie sui voti per Marini», ha urlato il Cavaliere, non solo consapevole di dover condividere — in piccola parte — il fallimento della prima votazione, ma preoccupato anche per le prospettive.
«Abbiamo già  fatto una mezza figuraccia — diceva Verdini dopo il tonfo di Marini — non possiamo farne un’altra ancora più clamorosa, andando appresso al primo nome che ci viene fatto. O i nostri elettori vengono con i forconi». E c’è un motivo se il coordinatore del Pdl si mostrava prudente, mentre iniziava a circolare la voce sulla candidatura di Mattarella: a parte le remore sul candidato, chi potrebbe dare la garanzia che non finirebbe come con Marini? «I grillini del Pd hanno bocciato un metodo non una persona», spiegava Alfano. La verità  infatti è che non è saltata la mediazione, è saltato il mediatore. E tutti i ras democratici ormai si propongono come interlocutori diretti al Cavaliere.
L’ha fatto Marini, che — «nauseato per le ignominie» subite l’altra sera alla riunione del Pd, «dove sono stato dipinto come un traffichino» — rivendica «il diritto» ad avere un’altra chance alla quarta votazione. L’ha fatto Renzi, con quei 90 voti fatti concentrare su Chiamparino che sono stati un messaggio rivolto (anche) a Berlusconi. E l’ha fatto D’Alema. È vero, la cena a cui «Silvio» e «Massimo» hanno partecipato tre sere fa in un’abitazione rigorosamente «bipartisan» non sarebbe andata bene, ma ieri l’ex tesoriere dei Ds Sposetti — fedelissimo di D’Alema — ha avuto un lungo colloquio con l’avvocato Ghedini, fedelissimo di Berlusconi. Senza contare che nel Pdl c’è una piccola gladio dalemiana, che a scrutinio segreto avrebbe fatto sentire il suo peso al primo scrutinio: «Ragazzi sono mancati una sessantina dei nostri per Marini», sosteneva il berlusconiano Laffranco appena fuori dall’Aula della Camera.
Saranno stati molti meno di sessanta, ma il senatore Grillo — amico del Cavaliere e ritrovatosi seduto vicino al solito Sposetti — era di certo tra quelli: «In fondo, Silvio punta su D’Alema. Solo che non può dirlo nè votarlo pubblicamente. Ma vorrebbe aiutarlo perché ritiene che sia l’unico in grado di mettere le cose a posto». Le cose a posto deve metterle il Pd, altrimenti nessuna scelta condivisa con il Pdl passerebbe. Ecco perché anche Gianni Letta ha consigliato prudenza al Cavaliere, invitandolo a non esporsi su Mattarella. Se poi D’Alema uscisse vincente dal ballottaggio con Prodi e dovesse proporsi in Parlamento…


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