Napolitano concede la grazia a un colonnello del caso Abu Omar

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MILANO — L’altro ieri la richiesta urgente del parere alla Procura generale di Milano, e già  ieri, nonostante il parere contrario, la firma del provvedimento di clemenza: il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, a pochi giorni dallo scadere del suo settennato, ha graziato il latitante colonnello dell’aviazione statunitense e capo nel 2003 della base militare Nato di Aviano, Joseph Romano, condannato nel 2012 dalla Cassazione a scontare 7 anni di carcere e contribuire a 1,5 milioni di danni morali per concorso nel sequestro di Abu Omar, l’imam estremista torturato in Egitto dopo essere stato rapito a Milano il 17 febbraio 2003 da 27 agenti americani della Cia con l’appoggio del Sismi del generale Nicolò Pollari.
La richiesta di parere, indispensabile benché non vincolante, faceva riferimento al 4° comma dell’articolo 681 del codice di procedura, caso in cui «la grazia può essere concessa anche in assenza di domanda o proposta», dunque d’ufficio, seppure anche il difensore Cesare Bulgheroni pare avesse formulato un’istanza.
Con la concessione della grazia, Napolitano afferma di aver voluto «con un Paese amico ovviare a una situazione di evidente delicatezza, considerata dagli Stati Uniti senza precedenti per l’aspetto della condanna di un militare statunitense della Nato per fatti commessi sul territorio italiano, ritenuti legittimi in base ai provvedimenti adottati dopo gli attentati alle Torri Gemelle dall’allora Presidente e dal Congresso americani».
Il no del sostituto procuratore generale milanese Antonio Lamanna richiamava invece un aspetto delle motivazioni con le quali il 19 settembre 2012 la Cassazione ribadì la responsabilità  (7 anni) del militare americano assieme a quelle del capocentro Cia a Milano, Bob Lady (9 anni), e di altri 22 agenti (7 anni). Condanne a cui poi si sono aggiunte, per ora in Appello, quelle dei tre vertici della Cia che operavano a Roma sotto vesti diplomatiche, Ralph Henry Russomando, Betnie Medero (6 anni) e l’allora capo del servizio segreto Usa in Italia, Jeff Castelli (7 anni); più, sul versante italiano, le condanne dell’allora capo del Sismi, Pollari (10 anni), e del suo numero tre Marco Mancini (9 anni), sinora invano appellatisi a un «segreto di Stato» confermato dai governi Prodi-Berlusconi-Monti non sul rapimento in sé, ma sui rapporti tra Sismi e Cia «ancorché in qualche modo collegati o collegabili con il sequestro».
Joseph Romano il 17 febbraio 2003 garantì un anello fondamentale della «extraordinary rendition»: garantì al convoglio dei sequestratori l’ingresso sicuro nella base Nato di Aviano e l’imbarco di Abu Omar su un volo diretto alla base Nato di Ramstein in Germania, scalo del successivo trasferimento in Egitto al Cairo, dove l’imam radicale della moschea di via Quaranta subì pesanti interrogatori, percosse e umiliazioni.
«Il rapimento di Abu Omar — aveva perciò valutato nel 2012 la sentenza di Cassazione — venne realizzato per trasportare il prigioniero in uno Stato, l’Egitto, nel quale era ammesso l’interrogatorio sotto tortura, tortura alla quale Abu Omar fu effettivamente sottoposto». E «proprio la finalizzazione del sequestro rende la condotta degli imputati contraria al diritto umanitario, giacché la tortura è bandita non solo dalle leggi europee» come la «Convenzione per la salvaguardia dei diritti umani e delle liberta fondamentali» (Roma, 1950), «ma anche dalle convenzioni delle Nazioni Unite» come il «Patto delle Nazioni Unite sui diritti civili e politici» (New York, 1966) e la «Convenzione contro la tortura e gli altri trattamenti o punizioni crudeli o degradanti» (New York, 1984). Senza dimenticare che, all’epoca no ma adesso sì, esiste dal 2007 anche la «Convenzione di Parigi» proprio «per la protezione di tutte le persone contro le sparizioni forzate».
Per il militare si era già  speso invano nel 2010 il ministro della Giustizia, Alfano, che in una missiva ai giudici d’Appello aveva auspicato una sentenza che condividesse l’interpretazione americana di un trattato Nato per sottrarre alla giurisdizione italiana il loro ufficiale. Interpretazione insostenibile allora, ma sostenibile da pochi giorni, visto che l’11 marzo un decreto del presidente della Repubblica (il n.27 del 2013) è intervenuto proprio su questa normativa.
Benché latitante, Romano non rischiava in concreto il carcere: tutti e sei i ministri della Giustizia succedutisi con gli ultimi tre premier (Berlusconi, Prodi, Monti), e cioè Castelli, Mastella, Scotti, Alfano, Palma e Severino, hanno infatti ritenuto di esercitare la propria legittima discrezionalità  politica nel non dare corso alla diffusione in campo internazionale delle ricerche dei latitanti americani.
Il governo Monti, inoltre, nel filone che riguarda Pollari e Mancini, ha appena sollevato davanti alla Corte Costituzionale un altro conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato: è il quarto in questa vicenda, ma il più sensibile sotto il profilo istituzionale, perché intentato stavolta contro la Cassazione per il modo in cui nel 2012 avrebbe (a detta di Palazzo Chigi) errato nell’interpretare e indicare ai giudici milanesi di merito il perimetro normativo del segreto di Stato delineato nel 2009 dalla Corte Costituzionale.


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