Nel fast food delle armi

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Washington. L’odore è rassicurante, da officina, un vago aroma di metallo ben temperato e di lubrificante amorevolmente usato per mantenere in perfetta efficienza la mercanzia. Il silenzio è profondo, le voci basse e calme, come se noi clienti, e i commessi, ricordassimo senza mai osare dirlo che la merce venduta qui è la morte. Nelle ore della battaglia finale di Barack Obama, prima in Senato e poi, senza speranza, alla Camera dominata dalla lobby degli arsenali privati, sono entrato in un emporio di fucili, mitragliatrici e pistole che in questi giorni sta facendo affari a raffica. Il terrore che l’odiato governo, che il detestabile Obama con la sua timida crociata contro le armi da fuoco lanciata dopo il massacro di 27 bambini nel Connecticut, possa limitare il «diritto di portare armi» ha prodotto finora l’effetto paradossale della corsa al riarmo personale.
Questo nel quale entro si chiama Nova Firearms e non è stato facile da trovare. Sta in una casetta a due piani, un po’ nascosto dietro una tintoria cinese, in quella terra di nessuno fra Washington e la Virginia rurale profonda, dove due della tante America, rurale e urbana, sudisti e nordisti, convivono guardandosi con odio reciproco. Offre un assortimento di 40 mila fra armi e accessori. Aperto dalle 5 del pomeriggio alle 10 di sera, orari pensati per «gli uomini che lavorano». Il dopolavoro a mano armata. Quando avvicino uno dei venditori, un omone anziano e gentile, con il tono di voce fermo ma paziente del sergente che fu per 30 anni nella US Army, lo avverto che vorrei comperare una rivoltella per la mia difesa personale, ma che risiedo a Washington, dove le norme sono molto restrittive. «Non si preoccupi – mi sorride comprensivo il sergente ormai ammorbidito da anni di servizio alla clientela e non più di cazziatoni alle reclute – qui siamo negli Stati Uniti d’America, la terra degli uomini liberi, troveremo una soluzione, anche per lei prigioniero sull’altra riva del fiume».
Aggiriamo insieme un alto cespuglio di baionette innestate sulla canna di una ventina di fucili russi Mosin-Nagant, raccolti insieme come nei bivacchi dei soldati al campo, in vendita per la modicissima cifra di 350 dollari («Sono copie fatte in Cina», mi confida il mio sergente York) e ci fermiamo davanti alla vetrina dei gioielli. Sono oggetti bellissimi, le pistole, sirenette di cromo, molibdeno, a volte ormai plastica, disposti come scolaretti nella foto di classe, dalla pistoletta più piccola, non più grande di un pacchetto di sigarette, a un solo colpo calibro 22, che fa pensare a maliziosi nascondigli sotto le gonne di cameriere ed entraineuse da saloon, ai cannoni portatili calibro 45. «Purtroppo l’inventario è un po’ scarso, perché vanno via come il vento», si scusa. A occhio, non parrebbe. Mi guarda le mani: «Lei ha le mani piccole, dobbiamo scegliere qualcosa che possa maneggiare facilmente. Provi questa».
Provo. Stringere fra le dita un’automatica, o un revolver a tamburo, per chi non l’ha mai provato, è attraversare il fiume fra due mondi. Io sono colui che per pochi dollari può dispensare la morte, può decidere quale bambino, quale passante, quale avversario lasciar vivere o uccidere. In miniatura, l’emozione che sconvolse Oppenheimer davanti al primo test nucleare: sono il dio della vita e della morte.
Le armi nella bacheca sono piccole macchine perfette, levigate da ormai quasi due secoli di evoluzione, dalle prime pesanti “six shooter”, le sei colpi del signor Colt, rese meravigliosamente ergonomiche e tecnologicamente avanzate. Mi mette in mano una S&W, una Smith and Wesson calibro 9 per proiettili corti. Si rannicchia fra le dita, docile, freddina, come un gattino infreddolito che si accoccoli vicino alla madre. Può sparare sette colpi, uno in canna e sei nei caricatore e quando il mio sergente legge un’ombra di stupore nel mio sguardo di fronte ai cortissimi proiettili mi tranquillizza: «Non si preoccupi. Questa ferma qualsiasi creatura a due zampe». Ha un bel bottoncino rosso sul lato. Se lo premo, ping, si sprigiona il raggio laser che illumina con un puntino rosso il bersaglio. Non più mirini, occhio chiuso, puntat, mirat, sparat. Dove il puntino luminoso si ferma, lì colpirà  la pallottola. «Purtroppo si devono cambiare le batterie periodicamente». Purtroppo. Con 429 dollari – nessuno sconto, il mercato è rovente – posso fermare qualsiasi creatura a due zampe e anche parecchie a quattro.
Discutiamo i meriti di altre. «Pensa che la potrebbe usare anche sua moglie?». Forse. «Allora potrebbe essere meglio un revolver» e subito mi trovo in pugno una deliziosa, carinissima Taurus cromata, marca brasiliana oggi molto popolare, a tamburo per sei colpi, sempre calibro 9, con il naso corto. Sta in qualsiasi borsetta, negli Stati dove è permesso portarla con sé nascosta, nel portaguanti dell’auto, in un giubbotto. «Questa non si inceppa mai, se fa cilecca e sente click, basta tirare di nuovo il grilletto e parte di sicuro». Costa anche meno: 399 dollari. «Vedrà  che questa piacerà  a sua moglie». E per un lampo di cordite, vedo la scena di mia moglie in cima alle scale che bang bang click click spara nella notte a un intruso. «Sfortunatamente lei non vive in America, ma laggiù oltre il fiume», indica verso il Potomac, che divide la Virginia da Washington, nome che non vuole neppure pronunciare. Dovrò andare a ritirarla dalla polizia, che mi sottoporrà  qualche generica domanda: sei mai stato ricoverato in ospedale psichiatrico? Hai mai sognato di ammazzare i figli?
Ma le regine dell’emporio di morte non sono le pistole sotto vetro. Stanno, impettite una accanto all’altro, in lunga fila contro la parete e sono vecchie conoscenze, almeno trenta. Con nomi e sigle diverse, per mascherarle, sono quelle armi d’assalto, quelle carabine militari, che hanno fatto la storia più truce del nostro tempo. Le variazioni dell’AK 47, il Kalashnikov che ogni guerrigliero, terrorista, vendicatore di qualche causa persa, brandisce ed esibisce, con quel caricatore a banana che è la sua griffe. Mille e trecento dollari. Posso imbracciarlo? «Ma prego, lo punti verso il pavimento». È carico? «No, ma deve prendere l’abitudine». È più pesante di quanto mi aspettassi, ma qui il senso di onnipotenza è travolgente. Mai più senza fucile, fratelli, amici, mujaheddin, compaà±eros. Virginia Tech, l’università  dove sei anni or sono una studente con fucili di tipo militare come questo che maneggio, abbattè 32 vittime, è a poca distanza da qui. Andiamo, è tempo di mietere.
Accanto alle riproduzioni di Kalashinikov e di M16, l’arma d’ordinanza americana, si erge trionfale la stella, quella che nel West sta andando a ruba. Il “Bushmaster”, il signore dei massacri, il semiautomatico capace di 100 colpi calibro militare Nato. «Ci è rimasto soltanto un pezzo», sospira il sergente «ma è il modello nuovo e migliorato». Si chiama ACR, modulare, può cambiare la canna, il calibro, il calcio, secondo la missione “Adaptive Combat Rifle”, per ogni tipo di combattimento. Specialmente indicato quando si deve combattere contro bambini di terza elementare e le loro maestre, come fu nella missione di Adam Lanza a Sandy Hook, nel Connecticut, dove riuscì ad annientare, con questo “Bushmaster” 20 temibili bambini e sei fra maestre e personale. 1.700 dollari. Questo, rifiuto di imbracciarlo.
Esco dalla Nova Firearms con la più patetica delle scuse coniugali, «ne parlerò con mia moglie», e con una bracciata di volantini e brochure della Nra, la lobby della armi e di offerte di corsi d’addestramento nei poligoni: quattro ore 150 dollari e divento Rambo. Il sergente, che ancora spera, mi saluta: «Si ricordi, là  fuori o spari o qualcuno spara a te». Mentre riattraverso il fiume, sento ancora tra le dita il metallo freddo della Smith & Wesson.


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