Quattro consigli al leader democratico

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D’altro canto, il Pd è pressato dal Presidente della Repubblica per formare un governo, un governo di “larghe intese”, insieme al centro-destra di Silvio Berlusconi – cosa che vorrebbe anche Berlusconi. Per di più, il Pd è fortemente diviso al suo interno tra sostenitori ed oppositori di questo governo di larghe intese, ed è in corso una battaglia per la direzione del partito tra il segretario Pierluigi Bersani e il suo giovane rivale, Matteo Renzi. Una bella matassa da districare.
Cerchiamo di offrire a Bersani qualche suggerimento utile.
1) Fare il contrario di quello che vuole Berlusconi. Bersani ha detto più volte di no al governo di larghe intese. Ed ha ragione. Sarebbe, molto semplicemente, il suicidio politico. Vent’anni di esperienza hanno dimostrato molto chiaramente che un governo con Berlusconi, per definizione, non andrà  da nessuna parte. Un governo di larghe intese non è un governo tra destra e sinistra, ma un governo con Berlusconi. Il centro-destra non esiste: esiste solo il suo padrone. Un governo con Berlusconi è per forza di cose un governo di non-cambiamento e di non-riforme, perché un monopolista che ha paura di finire in prigione non può e non vuole un paese dove la classe politica ceda il potere ai cittadini, un paese più competitivo dove oligarchie e clientele vengano sostituite con opportunità  per gruppi nuovi.
I risultati delle recenti elezioni dimostrano che la gente non ne può più di questo tipo di politica, soprattutto l’elettorato del Partito Democratico, che ha perso molti voti a favore del movimento di Grillo. Sia il movimento di Grillo che Berlusconi stesso non sperano in altro che in un governo di questo tipo (un Monti-bis o, meglio, un governo Bersani) per screditare il Pd e la politica in genere. Sia il movimento di Grillo che Berlusconi sono infatti bravissimi nell’approfittare della disillusione popolare della politica – tanto che Grillo ne ha fatto il suo cavallo di battaglia. Nel caso di Berlusconi, bisogna rendere omaggio alla sua capacità  di essere simultaneamente il massimo responsabile della paralisi del paese e uno dei suoi principali beneficiari.
2) Non dare retta a Napolitano. Come Presidente della Repubblica, Napolitano vuole dare stabilità  al paese e non bada, come è forse giusto, al colore politico di chi la può offrire, facendo quindi appello al senso comune di “responsabilità ”. Ma sia Napolitano che i leader del Pd a mio avviso sentono troppo il peso dell’eredità  del vecchio Pci. Soffrono ancora di un complesso che affligge gli ex-comunisti: la smania di apparire sempre “responsabili”. Sono stati esclusi per decenni dal governo nazionale perché considerati pericolosi e hanno quindi dovuto lottare per dimostrare che erano invece responsabili uomini di governo. A cominciare dalla metà  o dalla fine degli anni ’80, la prima destinazione di un leader del Pci/Pds/Pd è sempre stata la City di Londra o Wall Street, per fare vedere che non erano ostili al capitalismo moderno. Ma questo complesso di inferiorità  ha fatto sì che il Pd dimenticasse di costituire una forza di opposizione e di alternativa. Ha fatto bene (all’inizio) a salvare il paese dalla bancarotta appoggiando il governo Monti, ma ora deve articolare una netta alternativa alla politica di austerità , da una parte sposando alcune delle tesi più sensate del programma di Grillo e dall’altra offrendo piani di crescita e opportunità . Anche a costo di sembrare irresponsabili, i leader del Pd devono sfidare il vangelo dell’austerità  anche se si tratta di mettere in discussione l’assetto attuale dell’unione monetaria. Nel governo Monti hanno scambiato stagnazione per stabilità , e hanno dato la sensazione di ascoltare di più i mercati finanziari che non i disagi del paese, pagando un prezzo altissimo.
3) Non avere paura delle elezioni. Il Pd ha fatto bene a cercare di creare le condizioni per un governo con l’assenso del M5S: c’erano i voti per un governo di sinistra e abbastanza terreno comune per portare a casa qualcosa di buono per il paese. Ha riscoperto la sua anima riformista. L’ha impedito soltanto la rigidità  di Grillo, e molti elettori sia dentro il Pd che dentro il movimento hanno rimpianto l’occasione perduta. Il Pd ora può affrontare le elezioni come l’unica forza di cambiamento credibile. Deve dire all’elettorato: Berlusconi è il non-cambiamento. Se volete che tutto rimanga com’è, votate Berlusconi. Grillo dice no a tutto. Se volete un cambiamento reale – e non virtuale – votate Pd.
4) Rimanere uniti. Naturalmente, difronte alle difficoltà  crescono le divisioni interne. Bersani ha lavorato bene dopo la sua pessima prestazione durante la campagna elettorale e merita un riconoscimento. Ma deve accettare per il bene del partito che in termini mediatici ed elettorali il Pd andrà  meglio con Renzi come candidato. A sua volta, Renzi e i suoi dovrebbero rinunciare alle tentazioni di un altro inciucio con il centro-destra e dimostrare di avere colto bene la lezione dolorosa delle elezioni di fine febbraio. Questo stranamente creerebbe le condizioni necessarie per soddisfare le tre principali anime del partito: una politica di vera alternativa, che potrebbe piacere anche a Nichi Vendola, ma rappresentata dal personaggio considerato di destra nel partito, cioè Renzi — il tutto architettato da Bersani. Per Bersani sarà  sicuramente un sacrificio personale difficile, ma è anche importante che il Pd ora chieda il consenso del paese senza essere capeggiato da un ex dirigente del vecchio Pci e che sposi il tema del cambiamento generazionale.


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