Quei buchi neri da sanare in fretta

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E anche perché si guarda solo all’indietro, a come erogare quanto ad oggi dovuto alle imprese, anziché a impedire che nuovo debito occulto si accumuli in futuro. Per essere più rapidi nel liquidare crediti e per impedire che il problema torni a riproporsi bisognerebbe aggredire le inefficienze della nostra amministrazione pubblica, imporre alla tecnocrazia dei ministeri e degli enti locali di stilare i bilanci secondo quanto previsto dalla legge e abolire il federalismo contabile impostoci dalla Lega, quello che permette ad ogni Regione di stilare un bilancio diverso da quello delle altre Regioni e soprattutto poco trasparente. Difficile che un esecutivo dimissionario possa far fronte a un compito così gravoso. Improbabile che se ne vogliano far carico i politici che hanno negli ultimi dieci anni permesso che si accumulasse debito occulto per più di 100 miliardi e che oggi se la prendono con chi sta faticosamente cercando di affrontare il problema. Ha fatto bene il presidente del Consiglio ieri a denunciare l’ipocrisia di chi, sentendosi in campagna elettorale, invoca quei pagamenti immediati che non ha mai attuato quando era al governo e c’erano le condizioni macroeconomiche per saldare i debiti pregressi accumulati peraltro in buona parte sotto la sua gestione.
Il decreto varato ieri dal Consiglio dei ministri doveva affrontare contemporaneamente tre problemi.
Il primo era quello di mettere in sicurezza i conti pubblici, rassicurando i mercati onde evitare effetti negativi sullo spread. Molto importante in questo contesto che la Commissione Europea desse un sostegno nei fatti all’operazione, sospendendo la procedura per disavanzo eccessivo nei confronti del nostro Paese. Il secondo problema era quello di procedere il più rapidamente possibile con la liquidazione dei crediti, per dare impulso all’economia, senza però perdere di vista la necessità  di assicurarsi che le amministrazioni pubbliche siano poi in grado di restituire i soldi che lo Stato sta loro prestando. Il terzo problema era quello di assicurarsi che i soldi arrivino davvero alle imprese e che le amministrazioni pubbliche paghino d’ora in poi i fornitori in maniera trasparente ed entro i 30 giorni previsti dalla direttiva europea.
Le misure adottate ieri sono efficaci sul primo aspetto, molto meno sul secondo e affrontano il terzo solo con riferimento al debito accumulato, invece che preoccuparsi dei flussi futuri di pagamenti. Vediamo perché.
Per beneficiare della sospensione della procedura di disavanzo eccessivo, il nostro Paese deve riportare il rapporto fra deficit pubblico e pil sotto il 3 per cento. Mentre i 40 miliardi sbloccati ieri andranno tutti ad aumentare il debito pubblico, solo una parte di questi peserà  sul deficit: si tratta delle spese in conto capitale (per esempio investimenti in infrastrutture) delle amministrazioni locali, che vengono oggi contabilizzate in termini di cassa e non competenza (ciò che conta per i parametri europei). Ci sono poi spese che non sono mai state iscritte a bilancio e che ovviamente, se riconosciute, farebbero lievitare il deficit. Come candidamente confessato ieri dal ministro Grilli, nessuno sa oggi quantificare a quanto ammontino le spese infrastrutturali da liquidare, figuriamoci le poste fuori bilancio. Il governo però si è impegnato a monitorare tutti crediti liquidati e ad assicurare che nel 2013 non più di 7 miliardi e mezzo vadano a ciò che fa aumentare il disavanzo. Nel caso si sforasse, a settembre l’esecutivo in carica dovrà  comunque trovare un modo per coprire spese al di sopra di questa soglia, in modo tale da non far aumentare il disavanzo più di 7 miliardi e mezzo. Questa somma è esattamente la cifra che porta il nostro deficit dal 2,4 del pil, stimato dal governo in assenza del provvedimento varato ieri, al 2,9 per cento, dunque appena al di sotto di quanto ci impone la Commissione.
Il prezzo di queste garanzie offerte all’Europa è che qualora si scoprisse che il disavanzo sta aumentando di più, il governo a settembre potrà  dilazionare ulteriormente i pagamenti, spostandone una parte sul 2014. Questo però è in contraddizione con l’intento di dare fin da maggio di quest’anno tempi certi di pagamento a tutti i creditori selezionati come beneficiari dei 40 miliardi, il che ci porta al secondo problema. Per avere effetti importanti sul rilancio della nostra economia, sarebbe stato importante liquidare i crediti rapidamente. Non solo perché ci sono molte imprese che rischiano altrimenti di chiudere, ma anche perché solo concentrando questa immissione di liquidità  nel sistema in un arco di tempo ristretto si possono avere effetti significativi sul rilancio della nostra economia. Purtroppo non sarà  così. Le procedure di erogazione sono state velocizzate rispetto alla bozza che avrebbe dovuto essere approvata nel Consiglio dei ministri di mercoledì scorso. Ma rimangono comunque complesse. Solo i Comuni che hanno già  in cassa le risorse necessarie potranno pagare con una certa celerità , ma essendo le amministrazioni più virtuose spesso le stesse che hanno impegni per infrastrutture anziché spesa corrente, dovranno comunque sottostare al vincolo dei 7 miliardi e mezzo. Gli altri Comuni dovranno indebitarsi sottoscrivendo contratti con la Cassa Depositi e Prestiti, a tassi elevati (gli attuali rendimenti dei Btp quinquennali). Sono norme che garantiscono lo Stato che presta ai Comuni, piuttosto che le imprese destinatarie dei pagamenti in quanto amministrazioni decentrate avranno scarsi incentivi a indebitarsi con lo Stato, temendo anche di finire nella “lista nera” dei Comuni soggetti a monitoraggio. In ogni caso, anche nella migliore delle ipotesi, i 40 miliardi verranno interamente liquidati non prima del settembre 2014. Inoltre per saldare i 50 miliardi e più di debito residuo, si conta di utilizzare le stesse procedure di certificazione che hanno sin qui fallito: meno di un decimo delle amministrazioni locali ha certificato i propri debiti da inizio 2013 anche perché non aveva nessun incentivo a farlo.
Il nodo di fondo che i controlli e le procedure farraginose si impongono perché nessuno oggi sa a quanto ammontino davvero i debiti commerciali della pubblica amministrazione verso le imprese. Si teme così che, aprendo uno spiraglio, ci si infili dentro di tutto. Per accelerare i pagamenti e per evitare che nuovi debiti si accumulino in futuro bisognerebbe ridurre il disordine amministrativo e contabile delle nostre amministrazioni pubbliche. La sensazione è che, in non pochi casi, debiti occulti siano stati accumulati sottoscrivendo contratti con privati, specie nella sanità , senza neanche rendersi conto degli impegni di spesa che si finiva per prendere. E una delle ragioni per cui la certificazione ha fallito è che si scontra con l’incapacità  di molte amministrazioni di ricostruire i propri bilanci. C’è poi l’opacità  contabile attivamente ricercata e quella permessa dal federalismo che oggi consente ad ogni Regione di avere un bilancio diverso.
Solo affrontando questi problemi si potrà  davvero accelerare non solo sulla carta i pagamenti della Pa, riducendo l’incertezza per chi fa impresa, il peggior nemico degli investimenti. Per riformare la macchina dello Stato e per imporre un sistema di contabilità  locale trasparente, che responsabilizzi agli occhi degli elettori chi gestisce le risorse pubbliche, ci vuole però un governo nel pieno delle sue funzioni. Bene che ci pensi chi oggi vuole tenere in vita un governo dimissionario mentre a parole sostiene la causa della trasparenza nella gestione delle risorse pubbliche.


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