Quei veti incrociati sulla testa dei presidenti

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Riducendo la questione all’osso: quando si chiede qualcosa bisogna avere qualcos’altro da dare in cambio. Il potere negoziale che serve a trovare un accordo politico per il Quirinale non è molto diverso dal criterio che adottano i bimbi di sei anni quando si scambiano le carte Pokemon a ricreazione: io ti do questo se tu mi dai quello, oppure me ne dai due piccoli che valgono uno intero.
Se non ce li hai oggi me li porti domattina. Se non me li porti, mi riprendo il mio e intanto per sicurezza tengo la tua penna. Funziona così, dall’asilo in poi.
L’accordo sui Presidenti si è trovato, nella storia, dando qualcosa indietro a chi aveva i voti che servivano. Tu mi dai i voti per il Quirinale e io ti assicuro la presidenza del Senato e il prossimo governo. Poi quando il mio candidato sarà  eletto nominerà  senatori a vita almeno tre dei tuoi che valgono quanto uno dei miei. In garanzia, intanto, teniamo le commissioni di controllo e manteniamo in carica tutti i funzionari di massimo livello: se non va come deciso non ve li restituiamo. Con Cossiga, l’esempio più fulgido di accordo politico perfetto, è andata esattamente così (diamo il Senato a Fanfani, il governo ad Andreotti, il neo eletto nominerà  per le minoranze tre senatori a vita) ed è stato infatti eletto il primo giorno al primo scrutinio con una maggioranza impressionante, 752 voti. 45 in più di Ciampi che molti anni dopo – in tutta un’altra epoca – è stato per ragioni molto diverse il secondo ed ultimo capo di Stato deciso al primo tentativo dai due terzi delle Camere.
Naturalmente per fare questo gioco, nel cortile di scuola come nei partiti politici, bisogna avere le carte. La ragione della paralisi oggi è tutta qui: nessuno ha abbastanza da dare per pretendere qualcosa in cambio, e delle ipoteche sul futuro – delle garanzie delle promesse – non c’è più chi si fidi. Un sistema di poteri spaventati e deboli, spaventati perché deboli, in cui nessuno ha la forza di essere altruista nè lungimirante. Un sistema in cui si è smarrito il coraggio. Gennaro Acquaviva, socialista di quando c’era il Psi, 78 anni, di presidenti ne ha fatti e visti fare parecchi: “Il problema oggi è che nessuno muove niente. Non ha la forza di spostare nulla. E’ un sistema spappolato in cui l’unica forza superstite è quella di paralizzarsi a vicenda. I kingmaker che lavorano all’accordo sono fragilissimi: cos’hanno da offrire in cambio a coloro a cui chiedono? E come possono controllare parlamentari che fra un mese o forse fra tre potrebbero non avere più il posto? Perché dovrebbero, costoro, rispondere ai capi? Solo in virtù della paura di sparire?”. Non basta, la paura da sola non è bastata mai. Genera, anzi, ancora più confusione e sperdimento. “D’altra parte questo penso quando vedo che le riunione di direzione, nei partiti, durano mezz’ora e nessuno fiata: sono tutti fermi e muti ad aspettare. Ma cosa aspettano?”. Già , cosa aspettano. Il tema del “perdere tempo” è diventato il tormentone dei giorni.
Dei vecchi superstiti, di quelli cioè che hanno memoria del gioco grande della Politica, Paolo Cirino Pomicino è il più giovane. 74 anni, al cospetto di De Mita e di Andreotti un ragazzino. Il giorno dell’insediamento delle nuove Camere, mentre i cinquestelle chiedevano indicazione per i bagni e occupavano i divani di destra e di sinistra, stava in un corridoio con vista sul cortile interpellato come un oracolo. Parlava del ‘76 – Napolitano lo evoca oggi – già  più di un mese fa: il governo monocolore di Solidarietà  nazionale nato dal compromesso storico. “In due anni e mezzo facemmo la riforma sanitaria, ci occupammo di ospedali psichiatrici e di contabilità  di Stato, scrivemmo le leggi speciali antiterrorismo. Lo facemmo perché non potevamo mandare il paese alla malora e lo facemmo perché avevamo la forza di farlo. Oggi si è smarrito il minimo comun denominatore della responsabilità  nazionale. I partiti sono deboli e pensano di fortificarsi prendendo tutto. E’ un grave errore. Chi è forte di un’identità , chi ha un orizzonte sa dare, seminare e aspettare. Quando Bersani dice che l’accordo col Pdl farebbe crescere il consenso dei cinquestelle dimostra di non credere lui per primo nella sua forza di governo”. Moro non fece così. Ciriaco De Mita, dall’82 all’89 segretario della Dc, intanto anche presidente del Consiglio: “Nel ‘76 la pubblica opinione era contrarissima al governo Andreotti appoggiato dal Pci. Moro disse: ‘Mi prendo la responsabilità  di questo processo, se mi dovessi accorgere che non funziona sarei io ad interromperlo’. I leader veri sono quelli che hanno la testa, non quelli che hanno l’età “.
De Mita di anni ne ha 85. Il 18 aprile, mentre alla Camera si inizierà  a votare per il nuovo presidente, sarà  a palazzo Venezia a ricordare il comunista Luciano Barca padre di Fabrizio, oggi ministro. “Con lui discutevamo del valore del mercato. Che anni”. Di questi che viviamo adesso dice invece: “Per la prima volta nella vita mi fanno paura. Non vedo chi possa e sappia guidare. Tutti i protagonisti della politica sono paralizzati dal pregiudizio verso gli altri, nessuno ha il coraggio di rischiare. Hanno dimenticato che in politica vince sempre chi rischia”.
C’è un solo metodo censito, dal dopoguerra, che abbia portato con successo un candidato concordato – Cossiga, appunto – al Quirinale. Si chiama “metodo De Mita”. Non è molto diverso da quello dei bimbi a ricreazione ma a sentirlo raccontare da lui sembra un romanzo a chiavi. Vediamo. “Il criterio ispiratore fu una lettura del pensiero di Togliatti che operava una distinzione: il capo del governo rappresenta la maggioranza parlamentare, il capo dello stato incarna l’unità  nazionale”. Cioè non è detto che debba essere un uomo espresso dall’area che ha la maggioranza in parlamento: deve anzi essere una personalità  il più largamente possibile condivisa. “Non è che chi ha la maggioranza indica un nome e pretende di imporlo. Non si fa così. Si concorda. La funzione del Presidente è istituzionale, non importa chi lo esprime. Lo spiegai a Spadolini, che mi disse ‘perfetto, ma non si è mai realizzato’. Risposi: nessuno lo ha mai proposto”. Provarono. “Bisognava prima di tutto parlarsi. Chiaromonte e Napolitano insistevano molto perché incontrassi Natta. Non sapevano che ci eravamo già  visti, ma eravamo d’accordo nel non dirlo. Ci eravamo incontrati a casa di Biagio Agnes. Natta era venuto da solo, non si fidava dei suoi: ‘non capisco cosa pensano’, mi disse”. De Mita propose Andreotti, Natta rispose: “Non siamo in condizione di votarlo”. Il problema era la persona, non l’obiettivo. Bisognava trovare un nome condiviso. “Così usai il sistema della rosa. Ogni gruppo doveva dare i suoi nomi. Agivo mai pretendendo di convincere e mai essendo già  convinto. Nella rosa di Natta c’erano Elia e Giuseppe Lazzati. Zanone e Malagodi non avevano liberali da proporre, indicavano solo democristiani. L’area laica diceva Baffi. Il nome di Cossiga emerse in modo abbastanza casuale. Era in rose diverse. Andai da Andreotti, gli dissi: i comunisti non ti votano. Lui mi rispose non importa: procediamo con Cossiga. Alla fine risultò l’unico nome, scartati gli altri. Alla vigilia del voto, all’assemblea dei gruppi, lo proposi per il Quirinale. Ci fu il gelo. Prese la parola Andreotti e disse: se fosse vivo De Gasperi sarebbe contento. Quindi andai da Cossiga a comunicargli la decisione: gli proposi, una volta eletto, di fare senatori a vita Elia Malagodi e Baffi”. Il candidato del Pci, il liberale, l’uomo dei laici. Tre carte nello scambio. Cossiga non li nominò mai, si rammarica ancora De Mita 28 anni dopo. “Gli chiesi anche di confermare Maccanico come segretario generale. Ma non perché fosse irpino come me. Perché era un uomo intelligente. Del resto le due condizioni possono convivere nella stessa persona”. Sorride un sorriso breve, chè c’è subito l’ombra dell’oggi. “Dopo il risultato elettorale, da leader di partito mi sarei posto il problema di trovare il punto di svolgimento della legislatura. Non si torna a votare, no. L’errore del leader del Pd è stato mettere come condizione il suo ruolo: ha paralizzato lo svolgimento dell’azione politica. Bersani avrebbe potuto fare un monocolore sostenuto da un dissenso manifesto e da un consenso di fatto”. Un dissenso manifesto, un consenso di fatto. “Non esattamente come nel ‘76, il quadro non è quello, ma con un accordo su alcuni provvedimenti avrebbe dovuto cercare l’accordo di tutte le forze in parlamento. Tutte. Non si può dire che un terzo delle Camere è estraneo ai processi politici in atto. Non si può dire: con Berlusconi non tratto. Tra l’altro: non è vero che chi sta a sinistra sia onesto e incorrotto, chi sta a destra disonesto e corrotto. Tutti potenzialmente sono l’uno e l’altro”. Quello che conta, in questa “democrazia rappresentativa logorata e davvero a rischio”, è che ci sia ancora chi sa mettere avanti l’istituzione al suo personale interesse. Le regole del gioco al suo gioco. Un esempio, legato alla figura di un Presidente che la giustizia ha assolto in ritardo e la politica riabilitato post mortem: Giovanni Leone.
Sono le sette meno dieci di sera del 6 maggio 1962, domenica. Ottavo scrutinio: a Segni mancano solo 4 voti per il quorum. Il nono scrutinio è agitato da uno scambio di schede, urla in aula, la seduta è sospesa per mezz’ora fra le accuse di brogli e camarille. Togliatti va da Leone, presidente della Camera, nel suo studiolo al piano terra di Montecitorio. Gli chiede di sospendere la seduta e rinviarla al mattino seguente. Gli dice che il nuovo candidato sarebbe stato lui, Leone: Togliatti gli garantiva il sostegno e i 330 voti fin lì andati a Saragat, i dc avrebbero dato i loro. Leone avrebbe solo dovuto usare a suo vantaggio le prerogative di presidente della Camera che gli consentivano di rinviare la seduta. Avrebbe dovuto farlo nel suo interesse. “Come potrei? Non posso”, e congedò Togliatti. Non rinviò la seduta, si precluse la strada al Quirinale, fece votare di nuovo che era già  notte di domenica. Fu eletto Segni con 443 voti.
Dopo Napolitano De Mita vede ancora Napolitano. “Nella storia tutti i presidenti in scadenza hanno sperato nella riconferma, Pertini più degli altri. Napolitano non vuole, e gli credo. Ma ha senso delle istituzioni, sarebbe in condizione di organizzare un percorso politico. E’ l’unica strada che vedo. Se glielo chiedesse il parlamento all’unanimità  non potrebbe sottrarsi. L’età  poi non conta, e il settennato non è detto debba essere condotto a termine”. Anche Cirino si congeda con un pensiero che risuona con questo. “E’ un momento in cui gli interessi tribali e personali si devono mettere da parte. Cinquestelle è un intreccio di protesta e utopia rivoluzionaria nato dalla crisi economica. Una specie di setta, e ogni setta porta dentro di sé le ragioni della sua fine. Le persone oggi contano più dei partiti ma è dall’organizzazione della politica che si deve ripartire per rimettere in piedi il Paese. Serve tempo, e qualche intelligenza. Non ne vedo moltissime in giro. Non mi pare una grande idea fare a meno di quelle che ci sono”.
(6-continua)


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