“Abiti puliti” in Bangladesh nasce la sicurezza grandi firme

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NEW YORK. «Compriamo meno, compriamo meglio », scrive Stephen sul sito del New York Times, dove da giorni, subito dopo la tragedia di Dacca, nella quale sono morti oltre mille operai nel crollo del Rana Plaza, si è scatenato l’eterno dibattito sull’etica nell’era del consumismo. «Ok, impariamo pure a fare shopping con più intelligenza. Ma sia chiaro che i colpevoli non siamo noi: sono i manager che vanno a produrre in quei Paesi per guadagnare di più», ribatte qualche pagina dopo Liza. E loro, i grandi marchi della moda “made” non si sa più dove, corrono ai ripari firmando un patto per aumentare i controlli e gli standard di sicurezza.
A guidare la svolta, le aziende europee, l’italiana Benetton in testa: «L’avevamo detto e l’abbiamo fatto. Con questa iniziativa tuteleremo i nostri uomini in quel Paese. Spero che ci seguiranno tutti gli altri». E subito ci sono le adesioni di Zara, H&M e Marks&Spencer, che nei vari comunicati dettano la linea: «Bisogna investire maggiori risorse, non possiamo più far finta di niente».
Il termine per aderire al Bangladesh Fire and Building Safety scade oggi a mezzanotte e i riflettori adesso sono sulle aziende americane che invece appaiono riluttanti. Calvin Klein è l’unico a dire sì, Gap è il più possibilista: «Dobbiamo chiarire alcuni aspetti legali in caso di dispute e contestazioni. Ma soprattutto vogliamo che sia un accordo globale, non solo delle società  europee», fanno sapere con qualche fastidio dalla casa madre, probabilmente spiazzati dall’accelerazione. E gli altri, come Wal-Mart, restano alla finestra, tutti fermi in attesa di capire come uscire dal vicolo cieco. E secondo alcune fonti starebbero pensando ad un accordo separato, con condizioni differenti.
Il regolamento è sul tavolo almeno da due anni, a proporlo i due principali sindacati IndustriAll e Uni Global Union che rappresentano quasi 70 milioni di persone in duecento paesi. Ma le trattative vanno a rilento, eccezioni di forma e di sostanza rimandano sempre più in là  la firma. Ci vogliono gli oltre mille morti di Dacca e la mobilitazione dell’opinione pubblica (con un milione di firme alla petizione “Abiti puliti”) per accendere il semaforo verde.
Nelle fabbriche adesso arriverà  un ispettore capo, indipendente, incaricato di vigilare sul rispetto delle norme di sicurezza. Ci saranno poi corsi per addestrare i lavoratori e soprattutto le società  dovranno investire milioni di dollari nella modernizzazione degli impianti, che vanno quasi tutti rimessi a posto secondo gli standard occidentali.
«Alla fine non si potranno sottrarre. Devono dare una risposta concreta ai loro clienti. La tragedia è rimbalzata per giorni su tutte le tv: non possono reggere l’urto di scelte impopolari», spiega Steve Hoch, professore di marketing alla Università  della Pennsylvania. E anche molti fondi di investimento iniziano a spingere in questa direzione: «Mi auguro che nessuno voglia continuare a trarre profitto in questo modo sconsiderato dalla morte di persone innocenti», è il messaggio chiaro che arriva da chi investe molti soldi. Scott Nova, il direttore esecutivo della Worker Rights Consortium di Washington è ottimista: «Le aziende che hanno firmato sono le più grandi produttrici in Bangladesh, penso che alla fine tutte accetteranno».
«Chiediamo loro di fare la cosa giusta»: è l’appello di Philip J. Jennings, il segretario generale della Uni Global Union, che aggiunge: «Non ci sono molte discussioni da fare, la scelta è tra la vita e la morte».
Ma la distinzione quando sul piatto ci sono venti miliardi di dollari, il fatturato dei manufatti tessili in Bangladesh, non è così immediata, tanto che ieri duecento stabilimenti hanno chiuso per sottrarsi alle innovazioni. I numeri non giocano a favore della semplicità : 5.000 fabbriche di abbigliamento, con oltre 4,5 milioni di persone, l’80% donne. Tutti provenienti dalla campagna dove le condizioni di vita sono ai limiti della sopravvivenza e dunque meglio, molto meglio la fabbrica senza fare troppe storie sulla sicurezza. Almeno sino al 2010, quando i continui incidenti, che hanno preceduto l’ultima tragedia, hanno spinto gli operai in piazza.
E così si deve muovere anche il governo, con il ministro dell’industria tessile, Abdul Latif Siddique, che annuncia la creazione di una commissione per alzare i salari minimi, ora attorno ai 30 euro al mese: «Non c’è dubbio che le paghe verranno aumentate», giura sperando di salvare il posto.
Due giorni fa sul Guardian, il banchiere dei poveri e premio Nobel per la pace, Muhammad Yunus, nativo del Bangladesh, aveva scritto: «Qualcuno di noi sarebbe turbato di spendere 50 centesimi in più se servissero a salvare delle vite umane? Penso di no. Le anime di coloro che sono morti a Dacca stanno a guardare quello che stiamo facendo e ascoltano quello che diciamo. Il loro ultimo respiro ci circonda ». Ora quelle anime, forse, iniziano a trovare un po’ di pace.


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