Addio Internazionale socialista

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L’Internazionale socialista ha i giorni contati, almeno nella sua versione storica, che si identifica soprattutto con l’immagine, e la forza, di Willy Brandt, suo presidente dal 1976 al 1992. Erano altri tempi, e proprio dalla Spd, che ha avuto nell’architetto della Ostpolitik il suo leader carismatico, viene l’impulso ad aprire una pagina nuova.
I dirigenti socialdemocratici tedeschi sono spesso divisi su molte questioni — ultimamente, perfino, sul limite di velocità  di 120 chilometri all’ora nelle autostrade — ma su questo argomento la pensano allo stesso modo. A parlare per tutti è stato il presidente Sigmar Gabriel, in un’intervista a Focus: «Bisogna rendersi realisticamente conto che l’Internazionale socialista non ha saputo negli ultimi anni dare un contributo sostanziale per limitare gli eccessi del mercato finanziario o per affrontare le altre sfide globali». Gli ha fatto eco Hans-Jochen Vogel, candidato cancelliere nel 1983, deplorando il «silenzio» dell’organizzazione fondata nel 1889 che riunisce oggi ben 150 partiti.
C’è anche già  una data per promuovere questo cambiamento: è quella del 23 maggio, quando la Spd festeggerà  a Lipsia il proprio centocinquantesimo anniversario alla presenza del presidente francese Franà§ois Hollande e di decine di leader socialisti di tutto il mondo. Sarà  l’occasione giusta — si pensa al Willy-Brandt-Haus, il quartier generale berlinese del partito — per promuovere a tutti gli effetti una nuova «cosa» che si chiamerà  «Alleanza progressista». D’accordo, anche se con qualche prudenza, i socialisti francesi. Molto interessato il Partito democratico italiano, che ha promosso a Roma in dicembre una riunione internazionale per la quale era stata scelta proprio quella etichetta. Il Pd, tra l’altro, non ha aderito dopo la sua fondazione all’Internazionale socialista. Coinvolti nelle discussioni di queste settimane anche i laburisti britannici.
La percezione di un logoramento del ruolo dell’Internazionale socialista era ben chiara da tempo. Non è un caso che i dirigenti della Spd abbiano deciso all’inizio di quest’anno di ridurre il contributo annuale da 100.000 a 5.000 sterline (il segretariato dell’organizzazione è a Londra) e di «retrocedersi», come il partito di Miliband, ad osservatori. Ma già  due anni fa Gabriel aveva toccato il tasto più delicato, quello riguardante la presenza di forze politiche e di leader che niente avevano a che fare con la tradizione del socialismo democratico. È stato il caso del raìs egiziano Hosni Moubarak, del presidente tunisino Ben Ali, del numero uno del Nicaragua Daniel Ortega. Un’etichetta buona, insomma, per dare copertura a tiranni.
I socialdemocratici tedeschi vogliono invece costruire una «rete» che possa rafforzare l’elaborazione collettiva dello schieramento progressista. Aperta al mondo, ma senza nostalgie e concessioni al passato. Il successo o meno di questo progetto, però, non può non essere determinato anche e soprattutto da una forte prospettiva europea, in cui le idee siano il punto di partenza per un dialogo a tutto campo sulle soluzioni più efficaci per superare la crisi. Un’alleanza per l’Europa, senza contrapposizioni schematiche, potrebbe essere il risultato più importante della svolta di Lipsia.


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