Bangladesh: United Colors of Responsibility

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Si tratta per lo più di giovani donne, precarie, povere, spesso migranti: il ritratto del lavoratore tessile tipo, come confermano i dati generali del settore tessile globale, che oggi fa notizia solo quando resta seppellito sotto le macerie o muore bruciato (lo scorso anno rimasero uccise in due incendi circa 260 persone in Pakistan e 112 in Bangladesh. Solo due giorni fa altre 8 persone sono morte, sempre in Bangladesh) in nome di una moda pronta a tutto pur di alimentare i suoi Brands.

Il Rana Plaza ospitava 6 fabbriche tessili tra il 3° e l’8° piano e un numero imprecisato di lavoratori tessili che si sfinivano in turni produttivi massacranti per rispondere alle richieste del mercato internazionale: bassissimi costi, just-in-time, flessibilità  totale ma nessuna garanzia sociale o sanitaria in barba alle regole e alle convenzioni internazionali in materia di diritto dei lavoratori. Ma questo mercato globale della moda porta anche nomi e cognomi. Sono i marchi internazionali europei e statunitensi in cerca di forza lavoro disposta a tutto, di paesi corrotti e collusi proni agli investitori esteri, di luoghi fisici ove materializzare produzioni pericolose e senza regole lontane dagli occhi di consumatori vinti dalla crisi e dal consumismo. Al Rana Plaza, infatti, si produceva per marchi famosi come gli spagnoli El Corte Ingles e Mango, le inglesi Primark e Bon Marche, la canadese Joe Fresh che hanno già  riconosciuto l’esistenza di rapporti con alcune di queste fabbriche e a quanto pare anche del colosso italiano Benetton.

Nonostante proprio qualche giorno dopo il disastro l’azienda italiana, presente come gruppo in 120 Paesi con oltre 5.500 negozi, avesse preso le distanze dalle fabbriche del Bangladesh coinvolte nel crollo del Rana Plaza sostenendo in un comunicato “che i laboratori coinvolti non collaborano in alcun modo con i marchi del gruppo Benetton”, nelle scorse settimane sono spuntati dalle macerie documenti e persino magliette etichettate United Colors of Benetton. Le etichette, fotografate sul luogo del disastro dall’Associated Press potrebbero forse riferirsi anche a un caso di contraffazione, ma l’ordine di acquisto alla New Wave, una delle aziende coinvolte nel crollo e sul cui sito la Benetton Asia Pacific appariva come uno dei quattro clienti italiani oltre ad una relazione finale che sottolinea alcuni difetti in una consegna di t-shits da donna sono documenti imbarazzanti e non ancora chiariti. Per la Campagna Abiti Puliti, un network che coinvolge in Italia una decina di soggetti e nel mondo con Clean Clothes Campaign centinaia di associazioni, “nel prestampato col logo della New Wave il nome Benetton ricorre più volte ed è quello del Buyer con tanto di quantità  ricevute e numero d’ordine”, anche se la transizione è stata fatta attraverso un’altra azienda, la Shahi Exports PVT. Come mai? Per Biagio Chiarolanza, Amministratore delegato responsabile per le operations di Benetton si tratta di “un fornitore estero dell’azienda che aveva occasionalmente subappaltato ordini a uno di questi laboratori da noi già  rimossi definitivamente dall’elenco dei potenziali fornitori, avendo l’azienda rilevato che erano venute a mancare le condizioni per qualsiasi rapporto di fornitura”.

Ma la difficoltà  nel rintracciare le aziende internazionali strettamente legate all’assalto dei luoghi dove ancora si lavora senza far domande, evidenzia la complessa articolazione delle filiere produttive internazionali e impone alle aziende committenti la responsabilità  di conoscere, valutare e monitorare tutta la catena produttiva dal punto di vista degli impatti sociali e dei diritti sul lavoro effettivamente garantiti. “La gravità  della situazione richiede un’assunzione di responsabilità  da parte dei marchi internazionali coinvolti, del governo e degli industriali locali, che devono porre fine a tragedie come questa – ha dichiarato Deborah Lucchetti, coordinatrice della Campagna Abiti Puliti – potenziando il sistema di monitoraggio adottato in materia di diritti umani.

A questo punto una semplice presa di distanza dalla tragedia anche da parte del gruppo di Treviso non basta e alla luce delle numerose prove che di fatto legano l’azienda a una delle fabbriche del Rana Plaza, Abiti Puliti ha chiesto a Benetton: “di inviare immediatamente una sua delegazione in Bangladesh, stabilendo un contatto diretto con Abiti Puliti e i sindacati locali per fornire immediato supporto alle vittime della tragedia che hanno bisogno di cure, cibo e assistenza; di contribuire al fondo di risarcimento negoziato con i sindacati bengalesi e IndustryALL (la Federazione internazionale dei sindacati tessili) in base a criteri equi e secondo una lista trasparente che elenchi tutte le vittime e i feriti; sigli il Bangladesh Fire and Building Safety Agreement, un programma specifico di prevenzione che include ispezioni indipendenti negli edifici, formazione dei lavoratori in merito ai loro diritti, informazione pubblica e revisione strutturale delle norme di sicurezza per rimuovere alla radice le cause che rendono le fabbriche del paese insicure e rischiose per migliaia di lavoratori” ed infine “renda pubblica e trasparente la lista dei loro fornitori e le azioni correttive intraprese per consentire alle organizzazioni non governative e ai consumatori di valutare in maniera indipendente la qualità  dei loro controlli e l’effettivo miglioramento dei livelli salute e sicurezza presso i vostri fornitori”.

In attesa di risposta, alcune già  arrivate con le parole di Chiarolanza “stiamo valutando come contribuire a un fondo che supporti le famiglie delle vittime” e “siamo già  in contatto con varie organizzazioni internazionali, tra le quali l’Organizzazione internazionale del Lavoroper intervenire al loro fianco a supporto di ulteriori iniziative specifiche per il Bangladesh”, le piazze di Dhaka continuano a riempirsi di una fiumana di persone che protestano contro le pericolose condizioni lavorative e il Governo ha deciso di chiudere per motivi di sicurezza 18 fabbriche. Ora Abiti Puliti assieme a ai sindacati locali, al Forum internazionale per i diritti sul lavoro e con il sostegno dell’Assemblea Generale Italiana del Commercio Equo e Solidale (Agices) ha lanciato una petizione online per chiedere a tutte le aziende impegnate in Bangladesh di sottoscrivere il Bangladesh Fire and Building Safety Agreement, al fine di ridurre enormemente il pericolo che altre tragedie del genere possano verificarsi e si è detta “certa che anche Benetton saprà  valutare con attenzione le istanze che provengono anche dai loro clienti, sempre più attenti a condizioni di produzione eque e dignitose” ha concluso la Lucchetti. Si perché nella “United Colors of Responsibility” di questa storia siamo chiamati in causa anche noi, in prima persona, ogni volta che decidiamo di comprare un capo d’abbigliamento da questa moda low-cost usa e getta. E non abbiamo alibi perché dall’abbigliamento selezionato dal Commercio Equo e Solidale all’etica ecologica e sociale di un marchio come quello di Patagonia, la scelta non manca e sono ormai sempre più numerose le realtà  che ci ricordano che non è sempre possibile comprare prodotti convenienti senza essere corresponsabili di pesanti impatti sociali e ambientali, quando non, almeno indirettamente, della morte di centinaia di operai.

Alessandro Graziadei


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