Bello ciao, addio al don tra trans e cardinali

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Il feretro è entrato dall’ingresso della chiesa del Carmine, gremita da ore, la stessa dalla quale il «prete da marciapiede», come amava definirsi, era uscito 43 anni orsono: cacciato dall’allora arcivescovo Siri a causa delle sue omelie «rivoluzionarie», del suo parlare senza peli sulla lingua, del suo operare senza assoggettarsi acriticamente ai dogmi, semmai tenendo insieme il Vangelo e la Costituzione, i sacri testi e Carlo Marx. Gallo sarebbe stato contento di questo riconoscimento postumo, mi aveva detto il giorno precedente «la Lilli», la donna che è stato il suo alter ego in tutti questi anni, l’unica, autentica interprete del pensiero del «Don». Non gli sarebbe dispiaciuto nemmeno che ad accoglierlo fosse stato un alto esponente delle gerarchie come il cardinale Angelo Bagnasco, che già  una settimana fa era andato a fargli visita nella comunità  di San Benedetto al Porto. Le persone accalcate nell’antica chiesa genovese e le migliaia assiepate all’esterno avrebbero invece gradito un riconoscimento ufficiale, da parte della Chiesa, dell’errore commesso nel 1970.
Il bicchiere, insomma, è pieno a metà  quando l’arcivescovo di Genova prende la parola. Il cardinale rilegge la biografia del «Don» ponendo l’accento sulla sua formazione cattolica, ricordando il motto di don Bosco che il giovane Andrea Gallo aveva fatto suo: «L’educazione è una questione di cuore». Ma è quando arriva al fatidico 1970 e al rapporto con il cardinale Siri che la rilettura della biografia del viceparroco del Carmine non risulta gradita alla folla, che si sarebbe aspettata un omissis piuttosto che una versione edulcorata. Bagnasco l’aveva già  anticipata alla stampa il giorno precedente: l’allora arcivescovo non aveva cacciato don Gallo, i rapporti tra i due erano buoni.
Alle 11,45 Bagnasco ripete il concetto, pur ammettendo la diversità  di vedute con il «Don», e la platea esplode in un riso sarcastico. La piazza, dove le parole del cardinale arrivano grazie a un paio di amplificatori, prende a intonare a squarciagola l’inno laico di queste esequie, quella Bella ciao che aveva già  accompagnato l’ingresso in chiesa e non ci vuole molto perché anche l’interno si infiammi: applausi, fischi, qualcuno abbozza un «don Gallo è vivo e lotta insieme a noi». L’orazione funebre è interrotta e ci vogliono qualche minuto e l’intervento della «Lilli», affiancata da don Vitaliano della Sala, per riportare la calma: «Don Gallo ha sempre detto che la Chiesa senza la testa non funziona. Impariamo ad ascoltare chi non la pensa come noi se vogliamo rispettarlo».
La verità  la dirà  un’ora più tardi Moni Ovadia, prendendo in prestito un termine abusato del politichese che accompagna l’agonia della Seconda Repubblica: «Don Gallo era divisivo», come Rodotà  lo era per la presidenza della Repubblica. Ovadia era uno dei migliori amici del fondatore della Comunità  di San Benedetto, e parla alla folla dal sagrato perché non gli è stato concesso l’onore del pulpito: «Ogni prete ha bisogno di un direttore spirituale. Lui diceva: io ce l’ho, è ebreo, si chiama Moni Ovadia». Parla in ebraico, cita Marx: «La felicità  è lottare».
Che non sarebbe stato un funerale facile per il Vaticano era nell’aria. Don Gallo è stato un figlio scomodo di santa romana Chiesa e la sua figura è ingombrante anche ora che non può farsi più sentire. Il suo «popolo» non è addomesticato e tutt’altro che remissivo o condiscendente. Per due giorni si è radunato attorno alla bara nella chiesetta di San Benedetto, lo ha ricordato con una lunga veglia funebre corredata di un repertorio di canzoni rivoluzionarie: l’immancabile Bella Ciao, Hasta siempre comandante, El Pueblo Unido, De Andrè e qualche canto popolare. Ha accompagnato il carro funebre per le vie della città  in un corteo che somigliava tanto a una manifestazione, con le bandiere No Tav, gli striscioni degli antagonisti e degli ultras del Genoa. Sono arrivati in centinaia dalla Val di Susa, hanno sfilato fianco a fianco gli ex disobbedienti del G8 e i camalli del porto, gli ospiti della comunità  e le «princese» del ghetto. In chiesa si vedono Dori Ghezzi e Alba Parietti, il sindaco di Genova Marco Doria – che interverrà  dal sagrato, anche lui troppo laico per parlare dal pulpito – politici della sinistra come Gennaro Migliore di Sel e Paolo Ferrero di Rifondazione, Maurizio Landini della Fiom. In prima fila i preti del dissenso: don Alessandro Santoro delle Piagge di Firenze – che aveva rischiato la scomunica facendo convolare simbolicamente a nozze una coppia gay – il genovese don Paolo Farinella – noto per le filippiche antiberlusconiane – il parroco «zapatista» don Vitaliano della Sala. La maggior parte non riesce a entrare, ma chi lo fa vuole ricordare, ancora una volta, a suo modo. Parla una trans: «Ci auguriamo che tanti seguano il tuo esempio, e anche che qualcuno ti chieda scusa». «Mi sarebbe piaciuto se ti avessero dato un riconoscimento. La tua santità  rivoluzionaria sarà  riconosciuta da una Chiesa che saprà  rinnovarsi davvero», dice un esponente della comunità .
Infine è il turno di don Luigi Ciotti. La sua orazione è dura, appassionata, politica, procede come la piena di un fiume ed è interrotta a più riprese dagli applausi: «Nel nostro ultimo incontro ci eravamo detti che nelle periferie del mondo si muore per la globalizzazione economica. In Italia si respira un malessere che si costruisce su frammenti di una sottocultura dell’ignoranza, sull’illegalità , sul crescere dell’individualismo. C’è una rete di economia inquinata, il problema della mafia sta in quella zona grigia che la alimenta». E ancora, in un crescendo di parole e argomenti scomodi per il Vaticano: «Con Don Gallo abbiamo condiviso il G8, la ferita interminabile della morte di Carlo Giuliani, la sana rabbia di fronte alla base Usa di Vicenza, la vergogna per lo stato delle carceri e per i Cie, il no alle grandi opere. Cosa ce ne facciamo quando non ci sono i soldi per i servizi?». Don Ciotti ricorda come Andrea Gallo aveva festeggiato i 50 anni dall’ordinazione con le amiche trans di Genova, la campagna delle «mani blu» contro chi voleva prendere le impronte ai rom, la battaglia per l’acqua pubblica e la preoccupazione per le politiche repressive sulle droghe. Infine, rivolto ancora una volta al Vaticano: «Don Gallo aveva portato dentro la Chiesa tutti: i gay, le lesbiche, i trans, i divorziati». Senza distinzione tra credenti e non credenti. «Difficile fare di meglio», ammetterà  lo stesso Ovadia qualche minuto dopo. Il sasso dell’eredità  di don Gallo è lanciato, nel cuore vivo della società  e all’interno della Chiesa. Piazze piene
Piazze piene Genova, fiumana nel sagrato e nella chiesa del Carmine. Trans, no global, preti del dissenso. E tanta gente comune


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