Gli Usa e l’era del gas facile Così cambierà  la diplomazia

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NEW YORK — Il boom dello «shale gas», il gas naturale imprigionato nel sottosuolo americano, divenuto recuperabile provocando delle microfratture negli strati geologici profondi, alimenta i sogni d’indipendenza energetica degli Usa: fin qui sono stati la spugna che ha assorbito gli idrocarburi prodotti in tutto il mondo, ma ora le cose stanno cambiando. Entro dieci anni, al massimo, gli Stati Uniti saranno in grado di fare da soli. Ma già  oggi la maggior estrazione di gas ha reso più competitive molte industrie americane (come quelle chimiche e metallurgiche) che bruciano un gas ormai a buon mercato: in Europa, dove è forte la dipendenza dall’import dalla Russia (soprattutto in Germania, ma anche in Italia) i prezzi praticati possono essere anche il triplo di quelli del gas venduto in Nord America. In Asia si paga ancora di più: anche quattro o cinque volte il prezzo Usa.
Da tempo negli Stati Uniti si discute della possibilità  di esportare una parte di questa enorme quantità  aggiuntiva di gas, man mano che i nuovi impianti di estrazione vanno a regime. Fin qui il Congresso si è mosso con prudenza, chiedendo che le licenze d’esportazione siano limitate ai Paesi che hanno già  accordi commerciali energetici con gli Usa: vendendo più gas fuori dal Paese — obiettava una forte «lobby» industriale — si faranno scendere i prezzi internazionali, mentre quelli interni tenderanno a salire, con conseguente perdita del vantaggio competitivo di cui oggi godono le imprese Usa. Ma ora si assiste a un ripensamento: in Parlamento è emersa una «contro-lobby» che vede anche i vantaggi di un export massiccio di gas (vendere alla Cina, ad esempio, aiuterebbe a ridurre il pesante deficit commerciale con quel Paese), mentre la Casa Bianca si è convinta che la vendita di energia all’estero può essere un efficace strumento di tutela della sicurezza nazionale, col quale aumentare l’influenza geopolitica degli Stati Uniti: vendere massicciamente all’estero per far crollare i prezzi aiutando i propri alleati, a partire dai Paesi Nato e il Giappone, e ridurre le rendite dei Paesi che oggi tengono alto il prezzo del gas, come la Russia. L’elenco delle nazioni che chiedono gas americano è già  lungo: dal Giappone, grande consumatore, alla Sud Corea all’India il cui sviluppo è limitato anche dagli alti prezzi che paga per le forniture energetiche.
Tre giorni fa è stato lo stesso Barack Obama a scendere in campo, durante la visita in Costa Rica, uno dei Paesi in lista d’attesa. Il presidente ha detto che entro il 2020 gli Stati Uniti diventeranno esportatori netti di gas e, pur precisando di non aver ancora preso una decisione formale, si è detto favorevole a un aumento delle vendite di energia all’estero. I tempi non saranno brevi e non solo per le resistenze di gruppi industriali come Dow Chemical e Alcoa e di molti parlamentari: per esportare di più ci vogliono più impianti di liquefazione del gas nei porti per consentire il trasporto via nave. I progetti ci sono, le autorizzazioni ancora no: è attesa a breve quella per un terminale di liquefazione in Texas. Ma l’effetto dello «shale gas», come detto, si sente già  sui mercati internazionali: gli Stati Uniti non esportano ancora, ma producono di più e il gas che i Paesi mediorientali non vendono più in America va verso altri mercati calmierando i prezzi pagati da europei e asiatici. Un effetto indiretto che ora gli Usa vorrebbero sostituire con un’azione assai più mirata, come ha detto esplicitamente, a un convegno, il capo del Consiglio per la sicurezza nazionale della Casa Bianca, Tom Donilon: «L’abbondanza di nuova energia ci consente di tutelare in modo molto più muscolare i nostri interessi strategici». Il gas americano può spezzare la spirale che ha fatto salire anche i prezzi del petrolio «indebolendo, così, il controllo del mercato da parte dei produttori tradizionali».
La Casa Bianca spinge sul gas anche per motivi ambientali (il gas spesso sostituisce il carbone, assai più inquinante). E la sua apertura, secondo alcuni analisti, è una scelta obbligata: se ponesse limiti all’export di energia (perché strategica) non potrebbe più accusare la Cina davanti al Wto, come sta facendo, perché vende col contagocce le «terre rare»: i minerali disponibili in quantità  limitatissime e quasi solo in Asia centrale. Ma l’export servirà  anche a ottenere risultati politici molto mirati. Se ne sono resi conto i parlamentari Usa che nei giorni scorsi hanno incontrato il premier turco Erdogan. Il quale ha detto loro senza giri di parole che, se ne avesse la possibilità , comprerebbe volentieri gas dagli Stati Uniti anziché dall’Iran.


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