Il cedimento del Pd sulla divisione dei poteri

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Non a caso, con il governo Letta – Alfano, dal regno del probabile siamo passati a quello del possibile, all’interno del quale, svincolati dai canoni della probabilità , può accadere di tutto, persino che l’asino voli, e così non succede, né succederà  nulla.
 Sulla crisi del Pd, precipitata sul, ma non generata dal mancato voto a Prodi, e sui rimedi necessari per la guarigione c’è un gran chiacchiericcio imperniato soprattutto sulla necessaria scomparsa delle correnti e degli interessi personali dei capobastone: possibile, appunto, ma altamente improbabile. Lo stesso propugnatore del rimedio, infatti, è stato eletto segretario grazie ad una tregua tattica concordata nel «caminetto» dei big, anch’esso condannato all’estinzione, possibile nella forma ma improbabile nella sostanza.
I veri guai del Pd, la genesi del dissolvimento, li possiamo leggere nell’articolo di Massimo Villone del 26 aprile scorso su questo giornale: la frammentazione localistica e la comparsa di tanti cacicchi con i loro clientes, il mito della governabilità , il rafforzamento dell’esecutivo e del premier con lo svuotamento delle assemblee elettive, l’indebolimento dello Stato, ed altro ancora. In buona sostanza, l’adesione ad una cultura della destra berlusconiana, con l’abbandono della legge elettorale proporzionale – un uomo, un voto – fondamento di tutto l’impianto costituzionale vigente: chi può vada a rileggersi il discorso di Togliatti alla Camera dell’8 dicembre 1952 nel dibattito sulla «legge truffa» di scelbiana memoria. Allora si trattava di assegnare un premio di maggioranza a chi avesse preso il 50% dei voti più uno, eppure in quel premio si vedeva, correttamente, lo stravolgimento del principio costituzionale del «suffragio universale uguale». Durante i lavori della Costituente si voleva inserire un emendamento tendente a ribadire la natura proporzionale del voto per la Camera, ma lo si ritenne pleonastico perché troppo implicito nella Costituzione stessa e, perciò, venne trasformato in un ordine del giorno, votato a larga maggioranza. Quella era la cultura costituzionale della sinistra, di cui ormai non v’è più traccia.
Tra le tante degenerazioni costituzionali, con questo sistema di voto e di conseguenti abnormi maggioranze, oggi si pone anche il problema della sussistenza della divisione dei poteri e della probabilità  che Berlusconi, tornato a palazzo Chigi possa, con un voto parlamentare, superare anche l’ostacolo della perdita dei diritti civili e politici. Viene citato l’art. 66 Cost. «Ciascuna Camera giudica dei titoli di ammissione dei suoi componenti e delle cause sopraggiunte di ineleggibilità  e di incompatibilità ». Non sono un costituzionalista, ma mi sembra poco probabile che tra quelle cause – sulle quali si vota – la Costituzione possa annoverare anche la perdita dei diritti civili e politici che sono, semmai, una precondizione ineliminabile per sedere in Parlamento: tant’è che chi non presenta il certificato di godimento di quei diritti non può candidarsi. Ci può essere un voto come «presa d’atto» di quella perdita, ma non un voto che la riduca a requisito non essenziale. Anche qui, però, gioca la berlusconiana investitura popolare che fungerebbe da legittimazione capace di annullare qualsiasi disposizione normativa, foss’anche di natura costituzionale. Addio quindi alla divisione dei poteri, dato che una sentenza definitiva della magistratura potrebbe essere cancellata dal potere legislativo. Sarebbe una aberrazione anche se realizzata da un Parlamento eletto con suffragio elettorale uguale, figuriamoci se quella maggioranza fosse attribuita ad un 35% degli elettori.
Che farà  in quel caso un Pd scomposto in un numero incalcolabile di bande? E che farà , più in generale, in sede di revisione della Costituzione? E’ possibile che ritrovi nei principi della Costituzione il suo collante ideale, ma è probabile che rimanga ancorato agli errori indicati da Villone e si acconci a un sistema che lo riduca all’irrilevanza e che, però, consenta ai vari leader di continuare a vivere delle poche briciole lasciategli dal potere della finanza e del tanto amato mercato.


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