Il dilemma di Londra

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LONDRA — Momento peggiore per andare alla Casa Bianca forse non c’era. Convinto di volare da Obama per discutere, fra le altre cose oltre alla Siria, l’istituzione di un’area anglo-americana di libero commercio, David Cameron si è trovato nella spiacevole condizione del premier impallinato dal «fuoco amico». La questione europea per Downing Street è una mina ormai saltata.
Mentre ancora stava mettendo a punto il dossier da affrontare con Washington, in particolare le risposte da dare all’amministrazione Usa che gli chiede di non insistere sull’uscita dalla Ue e che anzi gli obietta l’intenzione di stringere un nuovo patto commerciale ma solo se Londra negozierà  ma continuerà  la partnership con l’Europa, il premier britannico si è visto scaraventare addosso il guanto di sfida da una fetta consistente del suo partito. Uno sgambetto violento, viste le circostanze. Un modo per metterlo con le spalle al muro e per costringerlo, come avvenuto, a presentare a stretto giro di posta (stamane) un progetto di legge sul referendum sì o no a all’Europa. Mossa che apre mille scenari.
Che le acque fossero agitate nella periferia e nelle seconde file del gruppo parlamentare oppure fra i più anziani esponenti tory ancora legati alle tradizioni e alle suggestioni thatcheriane, David Cameron lo sapeva bene. E, così pure, che all’interno del suo governo alcuni ministri fossero particolarmente «nervosi» aveva avuto modo di constatarlo di persona. Ma che due pezzi da novanta del calibro di Michael Gove che guida il dicastero dell’educazione e Philip Hammond che è a capo della difesa uscissero allo scoperto con interviste in televisione per dire che se si celebrasse oggi il referendum sull’Europa loro voterebbero no e che non c’è tempo da perdere nel convocare un referendum, Downing Street non poteva e non voleva metterlo in conto. Specie a poche ore dal vertice con Obama.
Invece la bomba politica è deflagrata dimostrando che i conservatori sono sull’orlo di una crisi non passeggera, una crisi che entra nelle stanze importanti del governo. Considerando che nell’arena non ha mancato di presentarsi pure l’eccentrico e potente sindaco di Londra, Boris Johnson, che sta giocando una partita in proprio per conquistare la leadership nazionale e che sul Daily Telegraph, con duplicità  assoluta, sostiene di non ambire alla separazione dall’Europa subito, che è sbagliato ma che se questa Europa non cambia sarà  bene divorziare, si delinea per David Cameron uno scenario per niente facile da gestire nel prossimo futuro.
L’assedio a Downing Street si sviluppa sia sul fronte interno che su quello internazionale. Le fughe in avanti e le frenate sull’Europa, che hanno contraddistinto la rotta di David Cameron negli ultimi mesi, si stanno ritorcendo contro di lui. Un boomerang. Così, il premier si trova con due ministri di primo piano che lo contestano e allo stesso tempo con una mozione degli oltranzisti euroscettici che sarà  discussa e votata mercoledì ai Comuni (se i promotori non si fermeranno) per censurare l’assenza dal programma legislativo di quest’anno di una legge con le procedure e le date certe del referendum europeo. Lo smacco è di contenuti e di forma perché quel programma lo ha letto e illustrato la regina. E non è di certo un gesto di bon ton verso la sovrana provare a emendarlo in maniera tanto chiassosa.
Da qui la stizza di Cameron quando ieri sollecitato lungo la rotta verso Washington ha rifiutato l’idea di un partito che gli sta sfuggendo di mano. Presentarsi alla Casa Bianca con queste grane in casa non è il migliore biglietto da visita da esibire. Inevitabile la freddezza dei commenti. Cameron ha bollato le uscite dei due ministri (il loro no all’Europa) come «questioni ipotetiche, non essendoci il referendum domani» e ha ripetuto il suo mantra: con l’Europa «si trattano le riforme per renderla più flessibile, più competitiva, più aperta e per migliorarne le relazioni con il Regno Unito così da offrire ai nostri cittadini, quando avremo il referendum prima della fine del 2017, una scelta appropriata». Gettare la spugna in anticipo è controproducente, ha rimarcato Cameron dando dei perdenti a coloro che lo criticano per le cautele e gli sbandamenti.
La strategia del premier è di non usare toni ultimativi adesso, anche per non spezzare gli equilibri già  fragili di coalizione con i liberaldemocratici, ma di utilizzare l’Europa come tema elettorale di fondo nelle politiche del 2015 con la convinzione di catturare i voti degli euroscettici quando più conta e con lo slogan: se vinco io, se mi rimanderete a Downing Street senza il laccio di un’alleanza, faremo il referendum. Gioco rischioso. E gioco che non sembra accontentare la fronda dei conservatori che chiede impegni e passi immediati per avviare le procedure di separazione dalla Unione.
David Cameron è al bivio: o convince i suoi amici-nemici interni a pazientare usando la tattica del mordi e fuggi fino alla consultazioni oppure rischia di ritrovarsi vittima di un’imboscata al giorno e delle fibrillazioni che la crescita del partito dell’indipendenza di Nigel Farage sta determinando. Le elezioni locali sono state molto più di un campanello d’allarme. L’Ukip, che ha nell’antieuropeismo la sua bandiera, si è affermato come la terza forza politica ma soprattutto ha eroso altissime percentuali di consenso nelle regioni tradizionalmente vicine, se non fedeli, ai conservatori. Cameron ha provato nelle ultime settimane a sterzare verso posizioni decisamente più aggressive nei confronti dell’Unione Europea ma il suo intervento è risultato tardivo e soprattutto macchiato dal sospetto dell’opportunismo elettorale. Sono in tanti a non credergli.
Il messaggio che gli euroscettici e gli eurofobici hanno recapitato a Downing Street proprio a ridosso della visita a Obama segnala che la spaccatura non è una finzione o un leggero mal di pancia. Una componente importante dei tory trascina Cameron fuori dall’Europa sull’onda dei sondaggi e degli umori popolari (la voglia di abbandonare la Ue predomina e persino fa breccia fra i laburisti). La Casa Bianca (ecco il fronte internazionale) invece lo trascina dentro: l’amministrazione americana è favorevole a un’Europa unita con Londra che tratta sulle riforme ma che ne è parte senza remore. Obama a Cameron lo ha già  detto un paio di mesi fa. E lo ha ripetuto nell’incontro di ieri.
In mezzo a queste tensioni di casa e a questi colloqui e divergenze con l’alleato principale c’è il calvario di un premier ormai prigioniero delle sue ambiguità  sulla questione Europa. Che sia lui stesso un euroscettico non v’è dubbio. Ma l’alleanza coi liberaldemocratici, che sono i più convinti sostenitori dell’integrazione, e le relazioni sia con Washington sia con Berlino lo hanno fino ad oggi costretto a un approccio più pragmatico mettendolo nella condizione di frenare gli oltranzisti del suo partito e dell’Ukip. Solo che ora il gioco non regge più. Non basta che Cameron prometta il referendum per il 2017. Non basta che Cameron prometta di fare dell’Europa il campo di battaglia delle prossime elezioni politiche nel 2015. A Cameron, che insiste sulle necessità  di trattare e di sottoporre al giudizio delle urne il risultato dei negoziati sulle riforme europee, si chiede un atto di rottura: non la vaga e lontana intenzione di un sì o di un no ma qualcosa di più preciso, un orientamento forte ad accelerare il divorzio, sia pure amichevole, con l’Europa.
La verità  è che a furia di inseguire gli estremisti dell’euroscetticismo, ogni volta andandogli dietro e alzando l’asticella dello scontro con la Ue, David Cameron si ritrova alla fine nel loro mirino, quasi costretto a obbedire ai loro ultimatum, addirittura ad arrendersi presentando ai Comuni, mentre ancora è negli Stati Uniti, il progetto di legge sul referendum. Le certezze sulla sua leadership vacillano. La resa nei conti fra i conservatori è cominciata.


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