La guerra civile della Siria che spaventa l’Europa

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Ma l’accordo formale è stato raggiunto con fatica, dopo lunghe discussioni, senza superare il disaccordo che resta. Durante la discussione sono emerse le tante anime europee (interventiste, pacifiste, prudenti, sagge), ma anche l’unanime scarso desiderio di impegnarsi sul serio nel più grave, sanguinoso conflitto in corso sul Pianeta.
I governi interventisti, d’Inghilterra e di Francia, favorevoli a rifornire d’armi i ribelli, hanno convinto gli altri Paesi a togliere l’embargo. Quindi, dal 1° giugno, gli europei dovrebbero poter dare aiuti militari alla Coalizione nazionale siriana (Cns), la principale organizzazione di resistenza al regime di Bashar al-Assad.
Ma gli stessi inglesi e francesi hanno allungato i tempi. Per vincere la resistenza dei non interventisti, si sono impegnati a non agire prima d’agosto, nella speranza che la conferenza di pace, detta “Ginevra 2”, dia nel frattempo qualche frutto. Sempre che Mosca e Washington riescano a varare la loro iniziativa e a riunire tutte le parti in causa.
Le quali sono tante. Tanti sono anzitutto i movimenti armati siriani (alcuni stanno dibattendo a Istanbul da giorni sull’opportunità  o meno di partecipare alla conferenza); e altrettanto numerosi sono i Paesi implicati: la Russia e l’Iran in favore di Assad, il Qatar con i ribelli islamisti e anche jihadisti, l’Arabia Saudita con quelli moderati sunniti. Stati Uniti, Inghilterra, Francia sostengono l’opposizione armata con materiale non bellico e con un’assistenza che, oltre a quella fornita ai profughi, comprende attività  genericamente sanitarie e paramilitari.
L’Austria, la Svezia, la Finlandia e l’Irlanda hanno sostenuto, durante la riunione europea dei ministri degli Esteri, che rifornire d’armi i ribelli sarebbe un errore, perché aggraverebbe il conflitto e allontanerebbe un’eventuale soluzione politica. L’austriaco Michael Spindelegger ha definito «contraria ai principi europei basati sulla pace e non sulla guerra», la decisione di mettere fine all’embargo. Per placare le perplessità  dei pacifisti e raggiungere un’intesa sono stati posti dei limiti, in apparenza severi, alle eventuali forniture di armi. Non tutti i tipi saranno autorizzati e i destinatari dovranno essere prima presi in esame. Quest’ultima sarebbe una precauzione, assai difficile da applicare, per impedire che i jiadisti
ne possano approfittare.
La presenza di integralisti musulmani, e di terroristi dell’Al Qaeda locale, nella vasta e variegata opposizione armata siriana frena anche lo slancio degli interventisti. Catherine Ashton, incaricata della politica estera dell’Unione europea, ha precisato che le armi dovranno comunque servire «alla protezione dei civili». È su questi vaghi, volonterosi propositi che si è arrivati all’accordo formale nel profondo disaccordo reale.
La guerra civile siriana non spaventa e divide soltanto gli europei. Dopo l’esperienza irachena gli americani riescono a immaginare difficilmente un’altra spedizione nella valle dell’Eufrate. Barack Obama ha precisato che l’uso di gas da parte del regime di Damasco equivarrebbe al superamento di
una “linea rossa”. Vale a dire che implicherebbe un intervento? L’avvertimento resta poco credibile, se riguarda un’estesa implicazione americana. Del resto è per ora stato difficile provare al cento per cento l’impiego di gas tossici, nonostante i numerosi indizi. Ultimi quelli forniti dai bravi giornalisti di Le Monde, arrivati, con i ribelli, nella periferia di Damasco.
Meno pacifisti degli europei, ma altrettanto saggi, quindi prudenti, sono gli americani, i quali puntano su una soluzione politica, come dimostra il progetto della conferenza “Ginevra 2”, d’intesa con i russi. Tuttavia tra i politici americani non mancano gli interventisti che si spingono oltre, sul terreno, e visitano le zone siriane liberate. Dopo avere votato al Senato in favore dell’aiuto militare, John McCain, l’ex candidato alla presidenza, ha superato il confine turco e ha incontrato i ribelli.
La realtà  in Siria è questa: dopo più di due anni nessuna delle forze in campo è in grado di imporsi. I ribelli hanno conosciuto grandi successi iniziali; occupano una buona parte del territorio, ma poche aree urbane; sono divisi in numerosi movimenti che stentano ad accordarsi; faticano a conquistare l’appoggio delle minoranze etniche e religiose, e della popolazione nelle città . Il regime ha perduto il controllo di gran parte del Paese; subisce
gli attacchi dei ribelli perfino alla periferia della capitale; ma ha mantenuto una certa coesione, e dispone di mezzi militari, in particolare aviazione e unità  corazzate, dai quali gli avversari non possono difendersi, non possedendo armi adeguate. Se disponessero di armi antiaeree la situazione muterebbe. In questa fase il regime di Bashar al-Assad, a lungo in difficoltà , sembra passato all’offensiva, con qualche successo.
Una soluzione politica è ovviamente la più auspicabile. Ma ci si scontra subito a un ostacolo in apparenza insormontabile. I morti degli ultimi due anni sono tanti (non lontano dai centomila), e tanti sono anche quelli del passato (le decine di migliaia di vittime degli Assad, padre e figlio). I conti da regolare pesano. Inoltre nella guerra civile siriana, alimentata da armi e uomini provenienti dall’Iran, è coinvolto in prima persona il regime teocratico degli ayatollah. È quindi in gioco l’avvenire politico dell’altro Islam, quello degli sciiti, i quali sono al governo anche nella vicina Bagdad.
La Siria è il terreno di una tenzone antica, più politica che teologica, ma con uno sfondo religioso millenario. Quella tra sciiti e sunniti.
In questo vasto contesto la figura di Bashar al-Assad, l’allampanato presidente di Damasco, assume un’importanza che va ben al di là  del vero valore personale. La sua rinuncia al potere è una condizione preliminare finora posta dai ribelli siriani, dietro i quali ci sono il Qatar e l’Arabia Saudita. Ma quella rinuncia equivarrebbe a un primo cedimento. Se decisa dai nemici sarebbe qualcosa di simile a un ammaina bandiera. A una resa. Se decisa dai suoi sarebbe un’altra cosa. Un sacrificio. Ed è quello che ci si può aspettare di meglio, per puntare al futuro.


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