La sindrome di Stoccolma

by Sergio Segio | 29 Maggio 2013 7:10

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STOCCOLMA. Appena venti minuti di metrò, ma è come dal giorno alla notte. La linea d’ombra che accompagna la perdita d’innocenza è questa. Alla partenza c’è la città  maestosa e ignara di quel che accade, affacciata sul mare, i vicoli medievali di Gamla Stan pieni di turisti, con il palazzo reale, il museo dei Nobel, il parlamento. Poche fermate, e appena in superficie cambia tutto. “Stockholm suburbia”, adesso li chiamano così. I sobborghi di case tutte uguali con le parabole puntate a Sud, i giovani che bivaccano negli androni picchiettando sui loro cellulari mentre, intorno, i volontari cercano di cancellare le tracce della battaglia. Macchine bruciate, le finestre rotte dalle sassaiole. «Stiamo lentamente tornando alla normalità », spiega cortese il portavoce della polizia, Lars Bystroem.
Sono durati una settimana, gli scontri notturni tra agenti e bande di incappucciati, che dalla capitale minacciavano di estendersi a tutto il paese. Nelle ultime ore si segnalano incidenti isolati e sempre più sporadici. Solo i rinforzi di polizia arrivati da Gà¶teborg e Malmà¶, insieme a una pioggia sottile, sono riusciti a rimandare a data da destinarsi, almeno per ora, quella che anche il premier svedese Fredrik Reinfeldt ha battezzato ufficialmente come «rivolta ». Gli osservatori stranieri si sono precipitati a dire che in quei roghi urbani è andato in fumo anche il modello scandinavo, tra i più avanzati del mondo nel garantire eguaglianza e giustizia sociale. La risposta del premier, in modalità  legge&ordine — «non ci sono vittime del sistema, solo teppisti» — più
che una svolta autoritaria ha rivelato l’orgoglio ferito.
Il poco socialdemocratico Nicolas Sarkozy aveva chiamato “feccia” i ribelli della banlieue parigina. Al di là  delle definizioni, sono giovanissimi. La maggior parte delle persone fermate durante gli scontri è minorenne, non ha finito gli studi e non ha un lavoro, come un quinto dei ragazzi delle periferie più povere. Sempre in omaggio a un politicamente corretto che qui è stile di vita, si finge anche di ignorare la nazionalità  di questi rivoltosi: la tradizione progressista impedisce alle autorità  svedesi di fare classificazioni “etniche”. Ma sono tutti figli di quei profughi balcanici, afgani, iracheni, somali, siriani, che negli ultimi vent’anni hanno trovato rifugio qui e costituiscono ormai il 15% della popolazione svedese. Si sa, ma non si dice, e non lo si può neppure scrivere. Nelle cronache di questi giorni non è permesso fare distinzioni etniche, ma è almeno consentito interrogarsi sul “fallimento dell’integrazione”.
Lo stesso paradosso si ripete a proposito del sessantanovenne ucciso dalla polizia il 13 maggio a Husby, la periferia a nord della capitale, dove tutto è cominciato. Secondo la versione ufficiale, contestata da alcuni testimoni, l’uomo aveva brandito un machete contro gli agenti. Chi era la vittima che ha innescato le proteste? Un giornale locale ha osato scrivere che non era “autoctona”, ma di origini portoghesi. I media non hanno voluto riprendere la notizia e continuano a garantire l’anonimato dell’uomo, fino a conclusione dell’indagine della magistratura sul caso. Può apparire un atteggiamento miope, un’inutile ipocrisia. Eppure, in passato, è anche attraverso queste prudenze che si è costruito quel patto di convivenza civile, ora pericolosamente entrato in crisi.
Come Londra 2011, e ancor prima Parigi 2005, anche la civile Stoccolma scopre di essere circondata da una cintura di disagio e frustrazione. La violenza degli scontri non è simile a quanto accaduto nelle altre due metropoli europee, questo è pur sempre un paese con appena nove milioni di abitanti. Le scale di grandezza sono diverse, così come il paesaggio urbano. Husby è un quartiere vivibile, di case basse e rosse costruito negli anni Settanta grazie al “milion program”, un visionario piano di edilizia popolare. Parchi curati, scuole, biblioteche e trasporti pubblici perfettamente funzionanti. Ma per le nuove generazioni conta lo scarto tra quel che la società  promette e quel che non riesce a mantenere. Dall’alto della sua reputazione e delle aspettative che ne conseguono, la Svezia paga forse un prezzo ancora più alto nello sfogo di rabbia e delusione. Le opportunità  professionali e di miglioramento delle condizioni di vita si distribuiscono in modo sempre più asimmetrico.
I giovani di Kista, altra periferia in rivolta, si sentono beffati due volte.
Vivono nel quartiere considerato la Silicon Valley di Stoccolma, ma guardano i grattacieli delle società  ultratecnologiche costruiti accanto ai palazzoni dove sono nati come un monumento alla loro esclusione: sanno che difficilmente otterranno un colloquio di lavoro in uno di questi gruppi. Oltre quelle vetrate, non c’è posto per loro. «Sarebbe potuto succedere in qualsiasi altro momento». Ghamari Hamid, istruttore di origine iraniana che lavora in una palestra di Kista, considera la sparatoria di Husby come un mero pretesto. «Non si può cercare una sola risposta. La disoccupazione è solo una delle tante cause. I ragazzi si sentono isolati, lasciati ai margini».
Sul giornale progressista Aftonbladet l’editorialista Lena Mellin parla di fiasco politico. «Per troppo tempo — scrive — non è stato possibile neanche dire che in un quartiere in cui convivono 114 diverse nazionalità  servono più risorse e servizi pubblici». Le derive del “politicamente corretto” sono imputate alla lunga egemonia del partito socialdemocratico. Oggi, in una sorta di contrappasso, sono finite sotto accusa anche le politiche del governo conservatore, al potere dal 2006. Negli ultimi sette anni, il premier Reinfeldt ha tagliato le tasse e la spesa pubblica, che rimane comunque la più alta d’Europa dopo la Francia. Salari e contributo sociali più bassi, istruzione e sanità  aperti ai privati. Un’iniezione di liberalismo nel caro, vecchio welfare, con l’obiettivo di rendere più competitiva l’economia nazionale. In parte ha funzionato, come ha sottolineato qualche mese fa l’Economist, plaudendo alla tigre scandinava. La Svezia è sfuggita alla recessione che altrove ha colpito l’Europa senza però sconfiggere la disoccupazione (8,7%) ma ha conosciuto il più rapido incremento delle disuguaglianze nelle società  occidentali, dati dell’ultimo rapporto dell’Ocse.
L’illusione che non sia successo niente è di breve respiro. Husby ha già  cambiato l’agenda del parlamento, costretto a ridiscutere le politiche di integrazione, su richiesta di Jimmie Akesson, leader dei Democratici Svedesi. La Svezia è stato l’ultimo paese europeo a cedere all’ondata populista. Soltanto nel 2010, il partito xenofobo, che vuole chiudere le frontiere e rimandare a casa i clandestini, è riuscito a entrare nel parlamento con oltre il 5%. Gli ultimi sondaggi prevedono un raddoppio dei consensi in vista delle elezioni dell’anno prossimo.
È ancora presto per dire se la Svezia, dopo gli incidenti di questi giorni, sia pronta a stravolgere una tradizione di tolleranza e accoglienza, cedendo alle sue pulsioni più oscure, così ben raccontate, e quindi esorcizzate, nei noir degli autori scandinavi. «Stoccolma non brucia e la discriminazione non è sempre legata al razzismo», commenta la scrittrice di origine curda Nima Sanandaji. Parte della popolazione, spiega, viene lasciata ai margini per cause economiche, legate all’educazione, al retroterra culturale.
«Smettiamo di colpevolizzare la nostra società », chiede Sanandaji. È cresciuta nelle periferie degli immigrati e diventata intellettuale di successo, così come Zlatan Ibrahimovic è uscito dal ghetto di Rosengà¤rd, fuori Malmà¶, per diventare un campione di calcio. Henning Mankell, lo scrittore del commissario Wallander, sostiene che la Svezia è abituata a interrogarsi e scrutare il suo cuore di tenebra, in una ricorrente perdita di innocenza, cominciata addirittura con l’omicidio di Olof Palme, quasi trent’anni fa. Finora, dopo ogni esame di coscienza, il paese è sempre riuscito a restare in bilico, camminando sul filo della sua innata capacità  al compromesso. Ma anche lassù, nella fredda e civile Svezia, conservare l’equilibrio è difficile, sempre più difficile.

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