La teologia oscena della «sexual jihad»

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Parliamo del «matrimonio temporaneo». Se la guerra è il contesto in cui avvengono le peggiori violazioni dei diritti umani, l’esperienza degli ultimi anni ci dice che in una guerra civile con componenti religiose, come nel caso della Siria, questo avviene ancor più. Nello specifico del conflitto siriano emergono, oramai con drammatica frequenza, forme specifiche di violenza nei confronti delle bambine, legate a questo costume religioso che, a colpi di fatwa, viene riesumato e di conseguenza strumentalizzato, per attribuire il carisma della sacralità  a episodi di vero e proprio incitamento alla prostituzione minorile. Per capire quanta falsificazione ideologica ci sia in questa riproposizione, al di là  del dato oggettivo dello sfruttamento minorile, diciamo che, storicamente, la mut’a , ossia letteralmente in arabo «matrimonio di godimento» era un istituto originariamente vigente nel contesto islamico sciita che regolamentava un matrimonio «a termine prefissato», il ila ajal mussmma , secondo la formula araba.
 L’istituzione ha origini preislamiche, se ne trovano tracce anche nella biografia del Profeta, ma venne abbandonato, almeno secondo l’interpretazione sunnita, dopo il ritorno dalla spedizione militare contro Khaybar. Il sunnismo ritiene che allora il Profeta decidesse di abolirla ma questa versione viene respinta dagli sciiti che, infatti, seguitano a ritenerla legittima. Ora, se pensiamo che la maggioranza dei combattenti contro il regime di Assad, che appartiene alla minoranza alawita vicina gli sciiti, sono invece sunniti, capiamo subito la palese strumentalizzazione politica di una, peraltro, desueta tradizione religiosa. Di fatto il «matrimonio temporaneo» serve a giustificare l’avvio alla prostituzione di numerose bambine, quasi sempre minorenni, che vengono utilizzate per soddisfare, solo per alcune ore, gli appetiti sessuali dei combattenti jihadisti.
Le ragazzine sono ritenute idonee per la «sexual jihad» ovvero per la prestazione sessuale, già  a 14 anni. In Tunisia sono stati documentati diversi casi di vero e proprio lavaggio del cervello a giovanissime ragazze indotte a prostituirsi per sostenere la guerra santa. Il giornale tunisino Al-Hayat ha riferito di una video intervista in cui una ragazza minorenne spiegava di essere appena tornata dalla Siria dopo «essere stata convinta dai salafiti a recarsi nel paese per sostenere i mujaheddin».
La vicenda è entrata così a piano titolo nello scontro tra governo islamico e società  civile laica, tanto che Balkis Mechri-Allagui, capo della Lega tunisina per i Diritti Umani, ha dichiarato che, indipendentemente dal numero delle giovani tunisine coinvolte in questo traffico, «ciò che conta è che queste ragazze vengono attirate verso la jihad in Siria e noi dobbiamo prendere posizione contro questo problema». In realtà , i casi documentati sono la punta di un iceberg che tende inevitabilmente ad assumere dimensioni sempre più preoccupanti, data l’impossibilità  per le agenzie umanitarie di poter agire nel conflitto siriano al fianco delle popolazioni, a causa dell’altissimo tasso di realpolitik che muove le scelte delle nazioni che giocano con le vite dei cittadini siriani, e non solo, la loro partita sul tormentato scacchiere medio orientale.


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