«Deficit italiano in regola» Ora la Ue chiede riforme

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BRUXELLES — Quattro anni in castigo, e ora il perdono, però con libertà  vigilata e tanto di «braccialetto elettronico». Banalizzando al massimo l’annuncio che arriva da Bruxelles, è questo che sta per succedere all’Italia: dopodomani, secondo voci ufficiose, la Commissione Europea proporrà  che il nostro Paese esca dalla procedura di infrazione per deficit eccessivo, avviata nell’ottobre 2009, cioè appunto quasi quattro anni fa. Decisione quasi automatica: il rapporto fra deficit e prodotto interno lordo era al 5,3% nel 2009, ben oltre il massimo del 3% fissato dall’Unione Europea, e viene ora stimato per il 2012 al 3%, per poi assestarsi al 2,9% del Pil nel 2013. «Finalmente una buona notizia», è il commento a caldo di Palazzo Chigi.
Primo, prevedibile risultato della misura, che è stata preparata giorno per giorno dal lavoro negoziale del ministro per gli Affari europei Enzo Moavero Milanesi, e dal rappresentante permanente presso la Ue, Ferdinando Nelli Feroci: si dovrebbero ridurre i rendimenti che dobbiamo pagare sui nostri titoli pubblici offerti agli investitori, e dunque dovrebbe calare lo «spread», il differenziale di rendimento fra i titoli di Stato decennali italiani e gli omologhi Bund tedeschi. Ci costerà  meno caro trovare il denaro sui mercati. E il fatto di uscire dai «sorvegliati speciali», nella partita sul deficit, potrebbe liberare circa 8 miliardi. In molti, soprattutto a Palazzo Chigi, sperano in margini per nuovi investimenti. Anche Guglielmo Epifani, segretario del Pd, si schiera su questa linea. E c’è chi vede in quei miliardi «liberati», o magari in nuove concessioni da Bruxelles, un possibile «rincalzo» per la tassa Imu da abolire, o per l’aumento del punto Iva che si vorrebbe cancellare. Anche se, su tutto ciò, le fonti Ue non hanno mai avuto dubbi: trovare le risorse in casa, non aumentando però quel debito pubblico che alla fine graverebbe sul resto della Ue, e rispettando sempre i paletti del deficit. Si vedrà : c’è un altro mese per negoziare, fino al prossimo vertice Ue. Ma oggi, non si tratta solo di ragioneria. Mercoledì, insieme alla «sentenza», l’Italia — come altri Paesi sotto giudizio — riceverà  anche un dossier di raccomandazioni per evitare rischi futuri: sei avvertimenti, e sei boe cui Roma dovrà  restare ancorata anche nella tempesta della recessione.
Non musica nuovissima, in realtà , ma probabilmente non poteva essere altrimenti: l’Europa vive così da anni, fra esorcismi sempre uguali. Si parte dunque dal monito scontato a proseguire nel consolidamento dei conti pubblici, quasi una ricetta-fotocopia per tutti gli Stati Ue; e dall’appello a rendere più efficiente l’amministrazione pubblica. Bruxelles chiede poi a Roma di rendere più efficace il sistema delle sue banche, e torna a domandare più flessibilità  sul lavoro, cioè meno contratti collettivi e più contratti aziendali: echi dell’era Fornero e dell’ortodossia berlinese alla Merkel, forse però da riconciliare con il fatto che oggi, per le strade italiane, ci sono già  1,8 milioni di disoccupati in più. In coda alle raccomandazioni, altre due «sempreverdi»: ridurre la pressione fiscale (che ogni pochi mesi e con qualunque governo, per l’Italia, Bruxelles ri-certifica in salita) e aprire alla concorrenza nel mercato dei servizi.
A Roma, divampa già  la lite su che cosa fare «dopo». «L’Italia non ne può più di questa cattiva Europa, di questa Europa tedesca, egoista», scandisce Renato Brunetta, capogruppo Pdl alla Camera. Per alcuni, la fine della procedura è un «via da Berlino», un lasciapassare alla spesa: «Ma attenzione — spiega una fonte diplomatica qualificata — non vi è un rapporto diretto fra la fine della procedura e nuove deroghe o spese. Dopodomani verrà  consegnato all’Italia un certificato di buona condotta che sarà  innanzitutto un segnale per i mercati: i rendimenti dei titoli caleranno. Tutto il resto si dovrà  trovare poi riprogrammando per esempio certi fondi del bilancio Ue, e all’interno dei bilanci nazionali». Traduzione: la Ue non è (sempre) mensa e cassa comune, tanto meno quando c’è da servire un piatto chiamato Imu.
Luigi Offeddu


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