Segreto bancario, Svizzera pronta all’addio

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GLI accordi bilaterali sulla trasparenza firmati da Berna — dice il tam tam della Confederazione — si stanno rivelando troppo complessi e costosi. E l’Associazione delle banche elvetiche, ha rivelato il quotidiano “Les temps”, sarebbe pronta a cambiar strategia, aprendo i conti cifrati allo scambio automatico di informazioni con gli 007 fiscali stranieri. Lasciando l’Austria e le Isole del Canale nello scomodo ruolo di ultima trincea dei paradisi offshore europei e gettando nel panico le migliaia di persone che hanno parcheggiato i loro risparmi (solo dall’Italia più o meno 120 miliardi) sotto l’ombrello della proverbiale riservatezza svizzera.
Gli scricchiolii del fortino bancario rossocrociato non sono figli del caso. I bilanci pubblici di mezza Europa e di Washington non tornano più. E dopo aver chiuso un occhio (a volte tutti e due) per decenni, l’occidente è partito alla caccia del tesoro — si parla di decine di trilioni di dollari — nascosto nelle zone franche erariali in giro per il mondo. A scatenare l’offensiva è stata la Casa Bianca, costringendo la banca svizzera Ubs — con la minaccia del ritiro della licenza negli Usa — a consegnare la lista dei suoi clienti a stelle e strisce.
L’Europa — con la benedizione di Ocse e G-20 — si è messa in scia. Prima in ordine sparso, con gli accordi bilaterali con Berna (come hanno fatto Londra e Vienna) o comprando brevi manu da dipendenti infedeli svizzeri e lussemburghesi gli elenchi di tabulati cifrati. Poi colpendo unita: Germania, Italia, Francia, Spagna e Regno Unito hanno appena firmato un’intesa per «lo scambio multilaterale di informazioni bancarie ». E hanno dato carta bianca a Bruxelles per “stanare” gli ultimi paradisi fiscali del continente. Fiutata l’aria gli irriducibili del segreto bancario hanno rotto le fila: San Marino ha firmato la pace con Roma. Il Lussemburgo aprirà  dal 2015 i file delle sue banche. E in attesa della Svizzera, persino l’Austria — l’ultima a fare resistenza — è vicina alla capitolazione. «Siamo pronti a trattare», ha ammesso il ministro alle finanze Maria Fekter. E la resa potrebbe arrivare questa settimana al Consiglio europeo che si occuperà  proprio di questo tema.
Nessuno, però, se la sente ancora di cantare vittoria nel risiko delle “Tax Wars”. Ok stanare i singoli evasori. La vera posta in palio però sono i soldi spostati come trottole in ogni angolo del globo dalle aziende in nome della famigerata “ottimizzazione fiscale”. Pratica che nell’era immateriale di internet è diventata un’immensa partita a guardie e ladri dove il fisco (quasi sempre in ritardo) insegue — copyright del premier britannico David Cameron — «una carovana viaggiante di legali, contabili e simil-guru finanziari». Gente che comunque sa far bene il suo lavoro: Apple paga l’1,9% di aliquota sui profitti esteri. E tiene fuori dagli Usa — per risparmiare 28 miliardi di tasse — un tesoretto di 100 miliardi. Dell pare vanti un tax-rate sulla sua cassa parcheggiata a Singapore dello 0,1%. Google ha appena trasferito alle Bermuda 8 miliardi di liquidità . «Non è evasione fiscale, è il capitalismo — ha spiegato Eric Schmidt, numero uno del motore di ricerca — . E noi siamo orgogliosamente capitalisti ». Non sono i soli: i colossi hi-tech Usa hanno congelato all’estero 1.800 miliardi e pagano 160 lobbisti per convincere la Casa Bianca a varare uno scudo fiscale che consenta di reimpatriarli con un’aliquota del 5,25%.
Il bello è che l’Europa, Olanda, Irlanda e Lussemburgo in testa, è il Bengodi per queste acrobazie fiscali. Basta parcheggiare i marchi qui (come hanno fatto Amazon e molti nomi della moda italiani), pagare in loco i diritti di sfruttamento, e il gioco — in gergo si chiama “Double Irish” o “Dutch Sandwich” — è fatto: in patria si contabilizzano i costi, all’estero i profitti quasi esentasse. Ad Amsterdam esistono 23mila aziende ad hoc domiciliate presso caselle postali. Il Postbox990 ne ospita 2mila tra cui quelle che curano i diritti di U2 e Rolling Stones. Alle banche lussemburghesi arrivano ogni anno dall’estero oltre 3mila miliardi di euro, 22 volte il pil del paese. In Olanda 3.500 miliardi.
«Inutile incolpare le aziende — dice Angel Gurria, numero uno Ocse — . È la politica che deve dettare le regole per evitare questa evasione legalizzata». La partita è però più difficile di quella contro i singoli evasori. Le aziende hanno grandi mezzi. Morto un paradiso fiscale, ne trovano un altro. A volte nemmeno troppo lontano da noi. «Questa è una guerra mondiale e noi non possiamo restare fermi », assicura il Cancelliere dello Scacchiere inglese George Osborne. Il suo obiettivo? Non spaventare Google & C.. Anzi: garantire loro che Londra difenderà  con i denti i privilegi erariali di Guernsey e di Man.


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